La Mariano, una prof memorabile «Ma si rende conto che ho 90 anni?»

«Mi sono laureata in sanscrito, era il 1949, all’università statale di Milano. Mi chiamarono subito in Germania per delle conferenze, sembravo diretta verso un avvenire in università e nella ricerca. Invece mi presi una bella tbc e passai mesi in ospedale. Fu uno degli eventi che mi cambiò la vita».
Che cosa è successo?
«Ero tornata dalla Germania, era stata un’esperienza molto bella. Io parlavo tedesco, ma poco. Allora sa come me la cavai? Parlando latino, tra quegli esperti di antiche lettere ci capivamo benissimo. Tornai a Bergamo e non stavo bene, mi visitarono e trovarono la tubercolosi. Fu un momento difficile. Mi ricoverarono all’Ospedale Maggiore, nel reparto che allora era diretto dal dottor Galmozzi, una gran brava persona, era stato il primo sindaco della Bergamo liberata. In particolare mi seguì una dottoressa giovane che era stata la mia compagna di banco, la Zanello! Era bello venire seguita dalla propria compagna di banco».
Poi guarì.
«Feci un periodo anche in sanatorio a Vercurago. Poi tornai a casa. Mi ricoverarono a novembre e tornai a casa a giugno. Ma avevo paura a dare la mano alle persone, temevo che la gente mi volesse lontana per timore della malattia. Non furono momenti belli».
E il suo sanscrito?
«Dovetti abbandonarlo. E mi dispiacque molto perché è una lingua affascinante».
Che cosa è il sanscrito?
«È una lingua indoeuropea, come la nostra, però è la più antica che conosciamo di questo ceppo».
Indoeuropea.
«Sì. Significa che sono lingue che si sono sviluppate in un’area tra India e Asia Minore e che poi sono approdate anche in Europa. Il greco classico è indoeuropeo, come il latino, come poi l’italiano. Abbiamo poemi antichissimi in sanscrito come il Mahabharata. Il primo testo in sanscrito che conosciamo sono i Rig-veda. Il Sanscrito Vedico è il più antico, vicino all’antica lingua comune».
Tutte le nostre lingue hanno un’origine comune?
«Sì. Difficile dire a che popolo e a che periodo risalga la lingua comune che poi si è evoluta in maniera differente nei diversi luoghi. Forse diecimila anni fa, forse prima. Il sanscrito mille anni prima di Cristo era già una lingua perfettamente strutturata, nei verbi, nei diversi casi delle declinazioni, nella sintassi...».
Che cosa significa sanscrito?
«Ci sono due radici, sa ha un valore positivo, indica qualcosa di buono e di ornato. e poi c’è il suono cr che indica qualcosa di concreto. Quel popolo indiano aveva due lingue, il sanscrito per le cose alte e il praclito per quelle concrete, terra terra. Sanscrito scrittura alta, ornata; praclito scrittura per le cose concrete». Bianca Mariano è seduta in poltrona, ha in mano un libro antico, scritto in sanscrito, lo guarda, lo mostra, dice: «Guardi come è elegante questa scrittura, è un romanzo del VII secolo avanti Cristo, sono storie d’amore, l’autore si chiamava Dandin» .
Ha appena compiuto novant ’anni. Come si sente?
«Mi sento bene. Ma lei si rende conto che io ho novant’anni? Io non me ne rendo conto. Dentro di me sembra di averne ancora trenta o quaranta, non so... Una bella incoscienza, le pare? Qualche giorno fa i miei ex allievi mi hanno festeggiato alla libreria Incrocio Quarenghi. È stato un momento davvero emozionante. Quanti bravi allievi ho avuto!».
Lei ha insegnato per una vita al Sarpi.
«Calma. Prima ho insegnato al Sant’Alessandro, tra i miei allievi ho avuto Ciro Elia che poi è diventato un bravissimo medico e psicanalista. Poi sono andata a insegnare all’avviamento di Clusone, quindi alle medie alla Petteni. E poi al Sarpi».
Lei e Calzaferri eravate noti per la severità.
«Eravamo molto diversi, in realtà. Lui era bravo, preparatissimo, certamente. Però a volte fin troppo severo. Io mi divertivo. Davo anche i tre, certo. Ma mi divertivo con i ragazzi. Vengono ancora oggi a trovarmi e a me fa tanto piacere, anche perché vivo sola».
Non si è sposata?
«No».
Amori?
«Tanti. E come fai a non innamorarti? Che vita sarebbe? Ma è andata così, non mi sono sposata. Ho vissuto con papà e mamma fino a quando sono morti. Papà era direttore di filanda ad Alzano, mamma era una maestra. Le è capitato un destino che non auguro a nessuno: lei era una donna di grande intelligenza, memoria, precisione. Si è ammalata di Alzheimer. È una malattia devastante per chi la soffre e per chi sta vicino a queste persone».
Insegnava greco e latino.
«Sì. Avevo fatto lettere classiche, mi ero laureata in sanscrito, ma non si insegna il sanscrito nelle nostre scuole. Quindi ho insegnato greco e latino, materie affascinanti anche perché portano a mondi lontani, a un mondo molto diverso dal nostro. Per certi aspetti».
E per altri?
«In apparenza ci sono enormi differenze. Se poi andiamo a leggere la letteratura di quei popoli scopriamo che l’animo umano non è così differente... Prenda le commedie di Plauto, tanto per dire. Al fondo, sembra che le dinamiche dell’ani - mo umano non cambiano granché in duemila anni».
Ma secondo lei la scuola è peggiorata?
«Non sono nel mondo della scuola da tanti anni. Mi dicono che si è molto “burocratizzata”, che si fanno riunioni su riunioni. Forse questo può appesantire il lavoro dell’insegnante. Quello che conta è la relazione con lo studente. Io penso che da questo punto di vista le cose non siano cambiate e che insegnare sia ancora qualcosa di bellissimo, di appagante. Se si ha la giusta disposizione d’animo verso l’allievo, il discepolo, potremmo dire».
Greco e latino hanno qualcosa da insegnare agli studenti di oggi?
«Certo. Come il sanscrito».
In che senso?
«Ascolti, al di là del fatto che il latino insegna a razionalizzare, a pensare bene, anche a sviluppare il senso dell’intuizione, è cultura, è conoscenza. La nostra conoscenza, le nostre radici. Veniamo dalla Grecia, dalla latinità. E grecità e latinità ci portano verso la Mesopotamia, la culla della nostra civiltà. Ma come possiamo vivere senza conoscere queste cose? Vivere in maniera completa e profonda. La storia delle lingue è affascinante, importante oggi come cento anni fa. La scoperta delle radici comuni, dei suffissi e dei prefissi. Le radici sono le basi di contenuto, ma senza prefissi e suffissi non si va da nessuna parte. Se io dico “animale” ho espresso un contenuto, certo, ma non significa niente. Come si articola il linguaggio, da dove nasce... È il linguaggio che ci rende umani. Il linguaggio ci serve per comunicare, ovvio. Ma definisce anche i contorni della realtà».
Mi faccia un esempio.
«Prenda la nostra parola “credere”. Un verbo. Lei conosce un significato di “credere”. Credere in qualcuno, in qualcosa, in un discorso. Credere come accettare una realtà, una verità, più o meno dimostrata o razionale o intuita. Giusto?».
Giusto.
«Ma la parola credere viene da due radici indoeuropee: “chrad” e “dha”. Che significano “cuore” e “mettere”. Nel suo senso più profondo, la parola credere significa “mettere il cuore”. E questo apre orizzonti di senso, non pensa? Per credere davvero bisogna mettere il cuore. È una nostra azione attiva, che ci impegna con tutta l’anima».
Lei continua a leggere?
«Leggo molto, passo buona parte della giornata a leggere. Leggo i giornali, Repubblica tutti i giorni. Solo a leggere Repubblica ci passa pezza giornata. Leggo libri, narrativa. Adesso mi hanno regalato questo romanzo di Luca Donzelli, non lo conosco, è un giovane... Sì, avrà sessant’anni...». Bianca Mariano ride, chiede se può offrire un caffè. Armeggia, arriva con le tazzine. La sua casa ha sapore di vecchio e di confortevole, qui, nel cuore del borgo San Leonardo. Nel cortile c’è ancora un pezzo di porticato con archi e colonne dell’Isabello. Continua Bianca Mariano: «Il romanzo si intitola Le cose semplici. È un bel titolo. La semplicità è un segno di intelligenza, basta che non la si confonda con banalità o la sciatteria».
Lei non è bergamasca.
«No, ma sono venuta a Bergamo che dovevo andare in prima ginnasio, avevo undici anni. Vengo dalla provincia di Cuneo. Mio padre aveva una filanda, andò male e venne assunto qui ad Alzano Lombardo. Poi si trasferì anche il resto della famiglia. Prendevo il tram ad Alzano, il tram rosso. Arrivavo al ponte di borgo Santa Caterina, sotto passava la Morla, oggi non si vedeva perché è tutto interrato. Poi facevo la via Noca, a fianco dell’Accademia Carrara e salivo in Città Alta. Quando suonava la sirena dell’allarme aereo si usciva da scuola e noi studenti eravamo contenti... in fondo i ragazzi di allora erano come quelli di oggi!».
Come si è trovata?
«Bene, mi sono trovata bene. Prima di tutto sono sempre stata felice dell’insegnamento. Poi ho conosciuto tanta gente che mi ha voluto bene, che me ne vuole ancora. Le ho detto che sono venuti a prendermi per la festa. Ma poi tanti ex allievi vengono a trovarmi. Il Gian Gabriele Vertova, la Daniela Maggioni. Il Franco Gavazzeni era uno dei miei migliori amici. Ero a casa sua quando è morto, così, improvvisamente. È stato difficile da affrontare, la vita a volte sa essere terribile, crudele».
Lei frequenta la parrocchia di Sant’Alessandro con assiduità.
«È vero. Stimo molto don Gianni, monsignor Carzaniga, lo considero una persona in gamba, un uomo di grande cultura. Vado a messa tutti i giorni, partecipo a qualche iniziativa. Cerco di credere, ma non è facile. Credo nel senso che le dicevo prima, in quel senso credo molto. Ci metto il cuore nel cristianesimo».
Diceva che la malattia di sua madre è stata qualcosa di molto doloroso.
«Sì, l’Alzheimer, la perdita progressiva della consapevolezza, dei ricordi, del senso della realtà. Terribile. Mia madre era una persona istruita, intelligente. Ricordo che portava spesso a casa un ragazzino, era figlio di una prostituta, lo aiutava, gli dava lezioni, ci credeva che potesse avere una buona vita. Siamo tutti una catena, siamo tutti legati gli uni agli altri. Se ciascuno cerca di capire e di aiutare l’altro, allora diventa bello vivere. Io penso che per volere davvero bene agli altri ci voglia l’intelligenza di capire. No, non l’istruzione, quella è un’altra cosa. Conosco persone senza un grande livello di istruzione, ma molto intelligenti, capaci di capire, e di volere bene».