Il brigadiere ucciso da Vallanzasca L'amore della moglie, 40 anni dopo
Guai a chiamarla vedova. «Io sono tutt’ora la moglie di Luigi D’Andrea. Me l’hanno portato via, mica ci siamo lasciati». Gabriella Vitali parla di suo marito al presente. Sono passati 40 anni da quel terribile giorno in cui le hanno detto che era morto, ammazzato da Renato Vallanzasca e dai suoi compari, eppure nel suo cuore il ricordo è più vivo che mai. «Sì lo ammetto, sono ancora innamorata di lui», dice.
Il primo incontro. Quasi arrossisce quando racconta come si sono conosciuti. «Una volta, parlo del 1968, il distaccamento della polizia stradale era in una torretta in fondo a via Santa Caterina. Io lavoravo in via Ghislandi, facevo l’impiegata e avevo un’amica che gestiva una profumeria proprio lì di fronte e spesso andavo da lei». Un giorno l’amica le rivela un fatto: «Mi ha detto che c’era un poliziotto che aveva comprato tantissime lamette da barba e che le chiedeva sempre chi era quella ragazza con i boccoli biondi che vedeva spesso insieme a lei. Io mi sono quasi scocciata. Avevo deciso che non mi sarei mai sposata. L’ho salutata e, proprio sulla porta, mi sono scontrata con lui. La mia amica non ha perso tempo e ci ha presentati». La prima impressione non è stata delle migliori: «Era stanco, ancora in divisa, aveva fatto la notte e aveva la barba di due giorni». Quello per Gabriella era un giorno speciale: «Era il 23 ottobre, il giorno del compleanno di mia mamma, morta due anni prima. Avevo preso mezza giornata di permesso perché volevo andare al cimitero a trovarla. Dopo la sua scomparsa sono rimasta completamente sola, avevo 17 anni». Quando D’Andrea le ha chiesto se si potevano incontrare nel pomeriggio, Gabriella ha detto, secca, «che avevo da fare con i morti». Lui non si è fatto intimidire e ha insistito per accompagnarla al cimitero. «Era tanto a modo, gentile, educato - ricorda - Mi ha chiesto se ero mai stata a Sotto il Monte, io gli ho risposto di no e così mi ci ha portata. Otto mesi dopo, il 5 giugno 1969, l’ho sposato».
Il giorno della morte. Gabriella ride, poi dice: «Ci siamo sposati due volte perché all’epoca i poliziotti potevano convolare a nozze solo dopo i 28 anni. Lui veniva da una famiglia di militari, era originario di Caserta: il padre finanziere, un fratello carabiniere, un altro aviatore e poi c’era lui. La divisa l’avevano cucita addosso». Dopo pochi anni nascono Lucia e Giovanna, la famiglia D’Andrea è felice. Fino al 6 febbraio 1977. Per il brigadiere D’Andrea era l’ultimo giorno di servizio a Bergamo, aveva accettato il trasferimento a Crema. E non avrebbe neanche dovuto lavorare, ma un collega si era ammalato e lui lo aveva sostituito. «Era domenica, io ero a casa con le bambine, che avevano tre e sei anni, e dovevamo andare a mangiare da una vicina. È stata l’unica mattina che non ho acceso la radio. Quando sono andata da lei ho visto che stava male. Lei la radio l’aveva accesa, aveva sentito la notizia e le era venuto un colpo. Non ha avuto il coraggio di dirmi niente, solo di andare a casa, ma io ho insistito per stare da lei, le ho detto che avrei preparato il pranzo. Poi dalla finestra ho visto il cappellano venire verso casa. Pensavo andasse da un vicino che aveva appena avuto un bambino, ho capito dopo che veniva da me. Con lui c’era un collega di Luigi, aveva gli occhi gonfi. Mi hanno detto che aveva avuto un incidente, gli ho chiesto di portarmi in ospedale ma loro hanno detto di no. Così ho capito che era morto».
Anni terribili. L’ultima immagine che ha di suo marito è terribile: «È morto alle 10, me lo hanno fatto vedere alle 17, dentro in un cellophane, con la divisa e gli occhi aperti. Ci ho messo tre anni a riprendermi. Ogni giorno andavo al cimitero e restavo lì ore e ore». Anche le bambine hanno subito un duro colpo: «Lucia ha cancellato completamente i ricordi dei suoi primi sei anni. Vorrebbe tanto ricordarsi di suo padre ma non ci riesce, ha un vuoto. Giovanna aveva smesso di mangiare. Diceva che lei avrebbe mangiato solamente quando sarebbe tornato il suo papà. Dopo sette giorni faceva fatica a camminare tanto era debole. Con amore e pazienza sono riuscita a convincerla e per fortuna ha ripreso ad alimentarsi. Ma per anni non mi volevano lasciare nemmeno per un attimo. Temevano che sparissi da un momento all’altro, come aveva fatto il loro padre».
Il Premio D'Andrea. Dopo quei terribili primi tre anni, Gabriella si è come riscossa e ha capito che avrebbe dovuto fare qualcosa per onorare la memoria di suo marito e di tutti quegli uomini in divisa che hanno perso la vita facendo il loro dovere. «Io scrivevo lettere. Ne ho scritte tantissime. Quando vedevo qualcosa che non mi piaceva, quando ritenevo che fosse stata commessa qualche ingiustizia, allora scrivevo. Al governo, al presidente del consiglio, ai giornali». E ha pensato che, se avesse fondato un’associazione, magari sarebbe stata maggiormente ascoltata, dato che avrebbe parlato a nome di numerose altre persone. Dieci anni fa ha quindi istituito il Premio D’Andrea, un riconoscimento annuale a quei membri delle forze dell’ordine che si sono distinti a livello civile e professionale nel corso del loro lavoro.
Va volentieri anche a parlare nelle scuole: «Spiego ai ragazzi quanto sia importante la legalità, racconto la mia storia e faccio loro capire che quando qualcuno commette qualcosa di brutto, fa soffrire tante persone perché le vittime hanno una madre, un padre, una moglie, dei figli». Gabriella è in contatto anche con la famiglia di Renato Barborini, il collega trentino di suo marito, morto quel giorno insieme a lui: «Sarebbe dovuto venire ad abitare proprio nell’appartamento di fronte al nostro, sullo stesso pianerottolo. Di lì a 10 mesi si sarebbe sposato».