Ora è sulla bocca di tutti e ora tutti sapranno, finalmente, di avere a che fare con uno dei più grandi poeti italiani del Novecento. Non minore di Montale, Ungaretti o Quasimodo. Giorgio Caproni è stato scelto per la traccia di uno dei temi della maturità 2017 con una piccola delicata poesia tratta da una sua raccolta Res amissa (titolo in latino, che significa “cosa persa”). È un libro che venne pubblicato postumo, l’anno dopo la morte di Caproni nel 1991. Ma chi era Caproni? Certamente un grande solitario. Uno poco avvezzo alle conventicole culturali. Era nato nel 1912 a Livorno e quindi la sua giovinezza fu segnata dalle penurie derivate dalla grande guerra, con il padre che era partito soldato. Il destino da poeta si palesò molto presto.

«A Livorno», aveva raccontato, «quando ancora facevo la seconda elementare, scoprii fra i libri di mio padre un’antologia dei cosiddetti Poeti delle origini (i Siciliani, i Toscani). Chissà perché mi misi a leggerli con gusto, insieme con il Corriere dei piccoli. In realtà a quell’epoca il suo sogno era un altro: voleva essere macchinista di treni. È sempre lui a raccontare: «Con mio fratello trascorrevo ore, nei nostri liberi pomeriggi livornesi, sul cavalcavia nei pressi dell’acqua della Salute, gli occhi incantati sul rettifilo del binario dove, fra poco, o come per prodigio, sarebbe apparso il direttissimo delle 16 e 17 o il rapido (l’espresso, si diceva, allora) tutto vagoni-letto delle 19, che fascinosamente veniva chiamato Valigia delle Indie». Ma più del treno poté, come lui diceva, «il baco della letteratura».
La storia di Caproni più che alla città natale è legata a Genova, dove la famiglia si era trasferita quando lui aveva 10 anni e dove aveva intrapreso studi di violino, anche con un certo successo. Componeva anche musiche su testi di poesia celebri. Poi però la musica cadde e restarono solo le parole. Così nel 1936, a 24 anni già si trovava a pubblicare il primo libro di poesie. «Non è un caso che tutto questo sia accaduto a Genova», raccontava, «città di continua musicalità per il suo vento. Andavo al ponte dell’Alba, dove alla ringhiera ci sono dei dischi che fischiano una musica straordinariamente moderna. I miei versi sono nati in simbiosi con il vento».

Caproni era un “franco cacciatore”, come aveva titolato la sua raccolta più celebre. Un uomo sempre in cerca, che accettava di lasciarsi incalzare da grandi domande. Ma era anche un poeta attento alla natura, alla bellezza delle cose, capace di osservare e di amare la realtà. La poesia con cui i ragazzi si sono cimentati per la prova della maturità fa parte di questa produzione di Caproni. Sono versi delicati, pieni di struggimento rispetto alla bellezza di un creato che rischiamo di distruggere per poco amore. Caproni è osservatore attento, conoscitore rispettoso: lancia i suoi strali contro chi avvelena l’ambiente, con una semplicità che quasi “biblica”, ma anche con una tagliente ironia («E chi per profitto vile/fulmina un pesce, un fiume,/ non fatelo cavaliere/ del lavoro). Una poesia innamorata e laconica che termina con la domanda sospesa nel finale: come tornerebbe bella la terra, scomparso l’uomo. Il seguito Caproni non lo scrive ma lo lascia noi: bella per chi, se l’uomo non c’è più?
Non uccidete il mare,
la libellula, il vento.
Non soffocate il lamento
(il canto!) del lamantino.
Il galagone, il pino:
anche di questo è fatto
l’uomo. E chi per profitto vile
fulmina un pesce, un fiume,
non fatelo cavaliere
del lavoro. L’amore
finisce dove finisce l’erba
e l’acqua muore. Dove
sparendo la foresta
e l’aria verde, chi resta
sospira nel sempre più vasto
paese guasto: Come
potrebbe tornare a essere bella,
scomparso l’uomo, la terra.