Scrisse «Così è (se vi pare)» Ma fu temerario, verso la folle vita
«Ridicolo! ridicolo! Che vuole che le faccia io se dalla Francia non ci viene più una buona commedia, e ci siamo ridotti a mettere in iscena commedie di Pirandello, che chi l'intende è bravo, fatte apposta di maniera che né attori né critici né pubblico ne restino mai contenti?»
È una delle battute iniziali dei Sei personaggi in cerca d’autore, il dramma che ha cambiato il teatro del Novecento. È il capocomico che si rivolge così al Primo Attore. La prima volta che risuonò in pubblico era il 9 maggio 1921 e il teatro era il Valle di Roma, noto alle cronache dei giorni nostri per essere occupato da un po’ (il giorno che succederà alla Scala forse qualcuno si renderà conto di dove stiamo andando). Ad ogni modo, quel 9 maggio le cose non andarono bene al professore (Pirandello insegnava al Magistero): la gente cominciò presto ad alzarsi e a uscire gridando che quello non era un teatro, ma un manicomio. Le urla dovettero però ferirlo ancor di più - quella sera - per una ragione che gli spettatori delusi non erano tenuti a conoscere, in quell’era di così scarso gossip, e cioè che due anni prima l’autore che i personaggi stavano cercando aveva dovuto accettare che la moglie fosse ricoverata in un manicomio vero, dove sarebbe restata per quarant’anni.
Ad ogni modo, Pirandello sapeva il tedesco. E questo lo salvò. Perché se il pubblico romano non era in grado di apprezzare il privilegio che gli era toccato, in Germania c’era chi poteva capire di cosa si trattava. E, in effetti, nella Prefazione che scrisse per la Terza Edizione (1925) del dramma, l’autore volle dichiararsi appartenente al genere degli «scrittori di natura più propriamente filosofica». Più Hegel che Goldoni, per dirla in breve. Diciamola tutta: a noi, Pirandello - Pirandello quello vero, il genio del teatro moderno e contemporaneo - ce l’hanno fatto capire i Tedeschi. Anche perché, forte della loro considerazione, il nostro grande autore, nei successivi dieci anni, poté scrivere più liberamente ben 21 opere teatrali e almeno due romanzi.
Quando, l’8 novembre del 1934 - terzo italiano dopo Giosuè Carducci e Grazia Deledda - ottenne il Nobel per la Letteratura, la motivazione dovette suonargli davvero molto appropriata, quasi consolante: «Per il suo ardito e ingegnoso rinnovamento dell'arte drammatica e teatrale». Ardito. Coraggioso al limite del temerario. Aveva qualcosa da dire - che il teatro è nella sua stessa struttura, nel rapporto che propone tra autore, attori e pubblico, ciò che la vita non dovrebbe essere - e non solo lo disse, ma continuò anche a dirlo senza timore di dover affrontare non solo il pubblico di tutti i Valle del mondo, ma anche le introduzioni ai suoi brani sulle antologie scolastiche, quelle che dicono che per lui la verità sarebbe indicata nella formula di un titolo famoso Così è (se vi pare), precedente ai Sei Personaggi.
Non poteva certo essere così per lui: una moglie affetta da gelosia paranoica a tal punto intollerabile che la figlia - tra le sospettate di attentare alla castità del padre - prima tentò di farsi del male e poi se ne andò di casa non sono realtà di cui si può dire che sono come sono «se ci pare». Ma, come ha detto lo studioso - e scrittore a sua volta - Camelo Samonà, è difficile diventare scrittori senza essersi confrontati seriamente col problema della malattia mentale. E per diventare buoni lettori il passaggio sembrerebbe ancor più necessario. Si vede che nel nostro Paese lettori e spettatori sono tutti perfettamente sani mentre i membri della commissione che assegna il Nobel qualche volta fanno a meno di esserlo. Ma questo - e sono in tanti a sostenerlo - lo si nota soprattutto quando si occupano di economia.