Verso il risultato finale

Israele, cosa non cambierà col successo di Netanyahu

Israele, cosa non cambierà col successo di Netanyahu
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E alla fine arriva Bibi. Con lo scrutinio del 99% dei seggi il partito Likud, che ha come leader il premier uscente Benjamin Netanyahu, ha ottenuto 924.766 voti (intorno al 23,26%), pari a 30 seggi del Knesse e ha superato l’Unione Sionista di centrosinistra, capeggiata da Herzog e Lvini, data per favorita alla vigilia, ferma a 24 seggi (18,73% dei voti). Più indietro Lista Comune, formata dai partiti arabi, che con il 10,98% ha “conquistato” 14 seggi. Ora il presidente israeliano Reuven Rivlin ha 42 giorni di tempo per assegnare ad un candidato “in possesso” di una maggioranza stabile il compito di formare un nuovo governo. In tal senso vanno lette le prime mosse di Netanyahu che, durante il discorso della vittoria fatto a Tel Aviv, ha annunciato i primi colloqui con i leader dei partiti di centro e di destra per formare la futura coalizione di governo, snobbando la proposta del capo di Stato di orientarsi verso un governo di unità-nazionale.

Quali seggi. Se dovesse riuscire a convincere i capi di Kulanu (10 seggi), Casa ebraica (8 seggi), Shas (7 seggi), Israel Beitenu (6 seggi) e Giudaismo unito della Torah (6 seggi), Netanyahu si assicurerebbe 66 seggi in Parlamento, numero superiore al sufficiente (61) per poter governare. Il Knesset, riunitosi per la prima volta nel 1949, è composto da 120 seggi, ottenibili solamente dai partiti che ottengono più del 3,25% dei voti (in Israele i cittadini votano il partito e non il candidato). Anche nelle ultime elezioni del 2013 Likud era stato scelto dal numero più alto degli israeliani, garantendosi così il ruolo di partito guida con 31 seggi in Parlamento.

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(AP Photo/Dan Balilty)

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(AP Photo/Dan Balilty)

Il no allo Stato Palestinese. Netanyahu vola quindi dritto verso David Ben Gurion, il padre della patria e primo ministro del Paese per 13 anni (1949-1953 ed 1955-1963). Ma i problemi ed i sassolini della periodo precedente si manifesteranno immediatamente, a partire dalla grande frammentazione generata dalla tornata elettorale. Non potrà fare un governo nazionalista, perchè non otterebbe la maggioranza per governare, ma allo stesso tempo non vorrà confrontarsi con la sinistra di Herzog e neanche prendere sottogamba l’exploit degli arabi di Ayman Odeh («Gli arabi israeliani hanno compreso l’importanza del voto e per noi hanno votato anche ebrei progressisti che non hanno accettato la deriva razzista di Netanyahu e dei falchi di Tel Aviv», ha detto il leader del partito). La questione palestinese è sicuramente quella più delicata dopo le dichiarazioni di Bibi, che a tal proposito ha già detto: «Non ci sarà alcuno Stato palestinese. Penso che chiunque si muova per istituire uno stato palestinese oggi, e si metta a evacuare alcune zone occupate, consegnerebbe all’Islam radicale un’area da cui attaccare lo Stato di Israele».

Contro Obama. La linea di Netanyahu si scontra con la posizione di Obama favorevole alla creazione di un territorio riconosciuto della Palestina, ed in tal senso il presidente americano avrebbe preferito la vittoria del più moderato Herzog. La risoluzione presa a dicembre dall’ONU di riconoscere la Palestina come stato “in linea di principio”, non sembra far cambiare idea a Netanyahu, nonostante Obama consideri questa presa di posizione uno stratagemma elettorale. Se è vero che in passato Bibi è stato propenso ad alcuni compromessi con la Palestina, dall’aprile 2014 ha interrotto completamente ogni tipo di rapporto, accusando il presidente Abbas di fomentare attacchi islamici contro Israele.

L’atomica in Iran. «Nessun accordo è meglio di un brutto accordo, e questo è un brutto accordo». L’altro tema caldo che dovrà considerare Netanyahu è quello legato all’atomica in Iran. Le parole con cui l’ex-premier, il 3 marzo scorso davanti al Congresso Usa, accusava il probabile accordo tra gli Stati Uniti e il governo iraniano, avevano mostrato al mondo la perentorietà con cui lo Stato israeliano di Bibi si sarebbe opposto al pericolo («Anche se Israele dovesse rimanenere da solo reagirà alla minaccia nucleare iraniana»). La posizione israeliana, rispetto al cosidetto accordo del 5+1 (Stati Uniti, Cina, Francia, Regno Unito, Germania e Russia) che consente all’Iran un programma nucleare in futuro “a patto che sia pacifico”, è totalmente scettica e convinta che ciò porti ad una pericolosa svolta nucleare iraniana («Il regime dell’Iran sarà sempre nemico dell’America»).

Nelle mani di Rivlin. Netanyahu crede che Obama, contrario alle posizioni israeliane sulla Palestina, stia “concedendo” l'atomica all’Iran solo per mettere alle stette Israele. Paradossalmente le chiavi dello scontro Barack-Bibi sono nelle mani di Rivlin: l’opinione pubblica israeliana infatti non esclude che, in caso di fiducia a Netanyahu, Israele cessi ogni tipo di negoziato con gli Stati Uniti fino al termine della presidenza Obama (prevista per l’ottobre 2016). In tal caso la chiusa fatta da Netanyahu al Congresso statunitense, dove definiva il rapporto USA-Israele come «qualcosa che deve restare sopra la politica in quanto condividiamo lo stesso destino di terra promessa», potrà essere letta come una velata anticipazione delle posizioni che saranno prese post-elezioni.

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