Fernanda, un pomeriggio d'agosto
Il tempo vola davvero. Sono passati già sei anni senza Fernanda Pivano, senza la luce del suo sorriso speciale, senza le sue parole scabre e piene di affetto. Fernanda Pivano la scrittrice, la giornalista, la traduttrice dei grandi della letteratura americana, quelli della beat e della lost generation. Amica di Hemingway, di Kerouac, di Bukowski, di Corso, Ferlinghetti e di tanti altri, in un pomeriggio d'agosto, il calendario segnava martedì diciotto, se ne andava portando con sé un bagaglio prezioso di ricordi straordinari, con la memoria di una vita intera trascorsa a cavallo di ideali e passioni che ne avevano fatto una eterna ragazza. La prima volta che la incontrai fu a casa sua, avevo appena scritto A Spasso con Papa Hemingway. Prima che mi concedesse quell'appuntamento l'avevo chiamata un paio di volte: la prima mi aveva mandato letteralmente a quel paese, era in una delle sue giornate no. La seconda ebbi più fortuna: «Come ti chiami? Perché continui a rompermi le scatole? Hemingway... allora tu sei amico del mio amico. Hai scritto un libro su di lui? Mandamelo, oppure no: portamelo». Mi dà l'indirizzo milanese e io dopo pochi giorni sono lì a suonare il campanello. Il salone è immenso e c'è di tutto, pile di giornali, di libri, antidiluviani registratori, un apparecchio radio e un televisore antiquato e poi una scrivania immensa.
«Sto preparando un libro in cui racconto di tutti i miei amici... sai, Ernest, Jack, Charles... ah oggi ho sentito quel caro Paul così colpito duramente dal disastro delle Torri Gemelle, l'ho chiamato, è proprio giù. Che follia in questo mondo». Mi fa accomodare su un grande divano vicino a lei e subito apre un album di pelle marrone: «Guarda queste foto, sono io con Papa: eravamo a Cortina. Ero bellina, che ne dici?». «Sei una donna piena di fascino anche adesso...». «E tu sei un cretino, che ti permetti di corteggiare una povera vecchia come me. Guarda che a cacciarti via ci metto un secondo». Ride e si illumina dello stesso sguardo ironico di quando poco più che ventenne si era incontrata con il grande scrittore americano del quale avrebbe poi tradotto quasi tutte le opere per il pubblico italiano. Una collaborazione professionale e anche forse, si malignava, un qualcosa di più da quando Nanda era stata alla Finca Vigia dell'Avana, dove Hemingway abitava con la moglie Mary. «C'è stato mai del tenero tra te e Papa?». «Lui avrebbe voluto sposarmi, ma era una cosa che gli saltava in testa di fare tutte le volte che si innamorava e questo gli capitava molto spesso». E allora? «Allora sei un grande impiccione: ho alzato un solido muro, grazie alla mia educazione vittoriana, e non è stato possibile varcarlo. Io era all'epoca già sposata con Ettore». Le racconto del mio libro e le spiego che mi ha intrigato follemente l'idea di andare in giro per il mondo cercando caffè, alberghi e ristoranti che Hemingway aveva frequentato.
Ci avevo impiegato tre anni, il totale sprezzo di tempo e denaro ma alla fine ci ero riuscito e il libro era stato pubblicato. Le andavo leggendo alcuni passi e si torceva dalle risate, finché un velo di tristezza le aveva velato gli occhi e come rapita in un'altra dimensione aveva cominciato a raccontarmi le sue esperienze personali con quell'immenso gigante della narrativa mondiale.
Poi iniziò a parlare di Jack Kerouak e di quella volta che lo aveva portato in Italia pagandogli biglietto e tutto per intervistarlo in Rai. E lui si era presentato talmente ubriaco che era stato necessario portarlo fuori a braccia. «Gli volevo un mondo di bene ed era anche un bellissimo ragazzo... maledettissima la mia cazzo di educazione vittoriana, mi ha fatto perdere centinaia di occasioni. Ma insomma è fatta: che prendi? Che ne dici di una bella cocacola ciascuno? «Dico che va bene, scoprirò che ne è ghiottissima e che tutte le cene che faremo al ristorante Cavallini di allora, ora stilisticamente trasformato in qualcos'altro, saranno sempre sottolineate dalla presenza della bibita americana dalla sua parte e vino dalla mia, perché trovo inconcepibile pasteggiare a quel modo.
Più volte siamo rimasti a chiacchierare di questo e quello, di cose futili ma più spesso di letteratura, di autori, delle condizioni in cui versavano già a quei giorni l'editoria e il mercato dei libri affollato di pennivendoli e gente disposta a pagare pur di farsi inutilmente pubblicare cose in totale assenza di uno straccio di distribuzione prima e promozione poi. Per non parlare del giornalismo e della mediocrità imperante, del fatto che, a suo dire, diverse donne facevano carriera non esattamente per doti professionali e molti del sesso maschile erano capaci al massimo di scrivere un biglietto d'auguri. «E al giornale dove ancora scrivo sempre più raramente, ne ho conosciuti in tanti anni un numero impressionante...». Aveva il dente avvelenato da quando si preferivano a lei altri traduttori per quelle opere che aveva reso celebri grazie alla sua intelligente versione e ce l'aveva con quel quotidiano che le negava ogni giorno di più spazio. Niente di nuovo sotto il sole, uno stile che diventa moda si volgarizza con facilità.
Le do da leggere un secondo libro, un romanzo, parla di un parallelismo tra Cuba e la Sicilia: protagonista Flor, una jinetera. «In Italia non ci sono scrittori, i veri poeti sono i cantautori come il mio amico Fabrizio e mi piace tanto anche Luciano...». Siamo in taxi e ho chiesto di accompagnarla a casa prima di farmi portare in albergo, le apro la portiera: «Fa niente Nanda, ho provato a scriverlo». «Il tuo libro funziona. E poi io ho parlato di scrittori italiani. Il tuo stile non è italiano, il tuo stile è ispanico».
Ciao Nanda, arrivederci immensa amica di sempre.