I ricordi di Ceribelli e Dal Bon

Il filo del mistero che ha legato il grande Giorgio Gaber a Bergamo

Il filo del mistero che ha legato il grande Giorgio Gaber a Bergamo
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Uno spettacolo teatrale al Qoelet di Redona a metà aprile. Ad autunno, un incontro con Gian Piero Alloisio, sua costola artistica e con Paolo Dal Bon, presidente della Fondazione intitolata a lui. Bergamo sta moltiplicando iniziative e incontri dedicati alla figura di Giorgio Gaber, scomparso quindici anni fa. Il Signor G aveva un filo diretto con la nostra città, per certi versi sorprendente.

«Guardi non ne sono sicuro al cento per cento, ma credo che la prima volta che Gaber e il suo autore Sandro Luporini si siano incontrati è stato a Foppolo». Arialdo Ceribelli, titolare dell’omonima galleria in via San Tomaso di fronte all’Accademia Carrara viaggia nella sua personale galleria di ricordi. Tra le eccellenze che hanno esposto nel suo prestigioso atelier, c’è l’autore dei testi di Giorgio Gaber, da sempre considerato uno degli artisti più importanti della pittura metafisica. Ancora oggi alle pareti di casa sua oscillano i suoi proverbiali mari, colorati con venature di grigio inverno. Si torna a parlare di Gaber, del suo teatro-canzone sintesi di musica e genialità, istinto graffiante, coraggio nel denunciare contraddizioni e muri ideologici che impediscono all’uomo di coltivare la propria libertà di pensiero. «Poco meno di un mese fa ho fatto vedere a Luporini un suo quadro: ritrae un paesaggio di montagna. E lui: qui eravamo a Foppolo. Lì c’era il pittore Giancarlo Ossola, che era stato amministratore di un albergo di Foppolo e lui portava su tutti in Val Brembana: Gaber, Jannacci, Celentano e lo stesso Luporini. E, come le dicevo, credo sia proprio lì che i due si sono incontrati...

 

 

Ho conosciuto il pittore una cinquantina d’anni fa a Viareggio tramite un mio amico. Sandro veniva al mare a pomeriggio inoltrato. Per lui le giornate iniziavano verso le 4 e finivano al mattino. Ricordo un’estate, aveva fatto un bagno nel mare di Viareggio. Si avvicinò al mio ombrellone e mi disse: Arialdo mi sento un po’ così così, quasi quasi mi faccio uno shampoo... Eravamo ai bagni Arizona e lì nacque quella canzone che è diventata un inno dell’arte espressiva gaberiana... Ho intensificato la nostre frequentazioni quando lui stava in uno studio che condivideva con Gianfranco Ferroni a Capezzano Piànore, vicino a Pietrasanta. Uno dipingeva rivolto verso una parete, uno su un’altra, le tele sui rispettivi cavalletti. In realtà più che altro giocavano a scacchi. La scacchiera era al centro dello studio. Sandro che non ama spostarsi dalla sua amata Toscana ha fatto qualche eccezione ed è venuto a Bergamo. Ricordo che una delle prime volte fu per la “Meta Cosa”. Era l’84 – continua Ceribelli – Sandro rimase in città diversi giorni. La prima sua mostra si tenne al Teatro Sociale, promossa dall’allora assessore alla Cultura Ambrosini e allestita da me. Solo che il Sociale aveva un buco enorme nel tetto, macerie alte tre metri un po’ dappertutto. Ho detto ad Ambrosini: metti a posto il teatro e al resto penso io...

Fu proprio più o meno in quel periodo che Gaber venne qui nella mia Galleria. Aveva tenuto una recita de Il Grigio al Teatro Donizetti. Lo spettacolo lo conoscevo a memoria. Avevo partecipato molte volte alle prove che Gaber e Luporini facevano a casa di Giorgio a Montemagno. Prove estenuanti, Giorgio era un perfezionista, ripetevano una battuta, un movimento, una scena sino all’infinito. Ma era una grande lezione. A Pietrasanta poi vidi la prima. Comunque, quando Gaber l’ha portato al Donizetti, io ero là. Finito lo spettacolo ero andato nei camerini a prelevarlo. Andavamo a cena a casa di Gianfranco Ferroni cui io avevo trovato una casa qui in via Milazzo, quartiere Finardi. Gli piaceva perché la casa era bella ma soprattutto perché era vicina al bocciodromo. Per lui incallito giocatore di bocce, una pacchia. Ricordo che Gaber era bagnato come un pulcino tutto sudato, la camicia fradicia, i capelli scarmigliati, sul volto i segni della stanchezza e della felicità. Aveva una tensione scenica, Giorgio, che lo faceva sudare tantissimo ma nel contempo lo rendeva unico. Come ogni altra rappresentazione, anche quella sera Gaber ottenne un successo strepitoso. Fece un salto qui da me molto rapido dopo la cena, poi se ne tornava a Milano a casa sua...

Ma se non le dispiace vorrei tornare a Montemagno. Dopo le prove, Giorgio, Sandro e io andavamo in qualche osteria. Luporini ordinò una bottiglia di Carlo Zadra, che allora non era così importante come oggi. Esclamai: questo vino è quello che si produce nel paese dove sono nato io. Vedrai, mi disse Sandro, diventerà un marchio importante...».

 

 

Ceribelli, non le è mai capitato di chiedere a Luporini del suo rapporto con Gaber?
«Sandro non è uno che ama mettere in piazza la sua vita privata. Solo quando le condizioni di salute di Giorgio peggiorarono, allora si aprì un po’. Lei si ricorda l’ultimo cd di Gaber Io non mi sento italiano, in quelle incisioni e soprattutto nel pezzo che dava il titolo all’album Giorgio aveva la voce un po’ strascicata. Ho chiesto a Luporini: ma è voluto? Rispose: no purtroppo. È molto stanco e fa fatica a cantare. Ma lui volle cantarlo. E venne registrato a casa sua. Tante canzoni scritte da Luporini credo siano in qualche modo autobiografiche, ricordi della sue esperienze umane, politiche, del suo stesso modo di vedere la vita. Lui e Giorgio erano più che fratelli, un rapporto splendido... Ricordo le discussioni politiche tra Sandro e Giorgio e il sottoscritto. Luporini vedeva già allora quello sfascio che di fatto ha disintegrato la sinistra. Ricordo Il conformista dove le cantava a tutti. Quella canzone è la sintesi di quelle nostre discussioni sulla realtà politica e sociale italiana...».

Ma insomma Ceribelli, Sandro è più pittore o grande autore?
«È bravo in tutto. Se va a giocare a poker è capace di spennare qualsiasi giocatore. Ma quando la posta è troppo seria, smette. Gioca a bocce ed è diventato un mezzo campione. A bridge credo sia stato campione italiano. Raggiunge l’apice poi molla. L’unica volta in cui è andato a avanti tutta la vita è stato con Giorgio».

E oggi?
«Luporini sta per tornare con uno spettacolo scritto per Davide Riondino. Il titolo definitivo è Lo stallo, inizialmente si intitolava Ai margini del buio. Se sarà messo in cartellone a Bergamo, io sarò là. Oggi Sandro ha 88 anni e non ha proprio voglia di mettersi a viaggiare, ma farò di tutto per farlo tornare qui da noi».

 

 

Chi invece ha frequentato Bergamo tutte le volte che Gaber vi ha tenuto uno spettacolo è Paolo Dal Bon, presidente della Fondazione Gaber, motore instancabile di tutte le manifestazioni, le rassegne, le ricerche, gli archivi dedicati al padre del teatro-canzone italiano. E suo amministratore di fiducia. «Eravamo nelle stagion i ’72-’73, ’73-‘74 – racconta Dal Bon – Giorgio aveva lasciato il mondo del successo garantito, prima serata del sabato sera su Rai Uno, accanto a Mina. La sua fu una scelta radicale e difficile. Nacque così il Signor G che non tutti i teatri italiani accettavano di programmare. E invece il Teatro Donizetti gli spalancò le porte. Non dico che non vi fossero problemi, non tutti gli ambienti sociali e religiosi di Bergamo vedevano di buon occhio il Signor G. Giorgio dava fastidio ma recitò al Donizetti anche Dialogo tra un impegnato e un non soFar finta di essere sani. Solo molti anni dopo, nell’86, il sistema teatrale recepì Gaber, l’importanza delle sua opera, l’ironia e la profondità dei suoi spettacoli. Proprio in quell’anno, ho conosciuto Cuminetti, che era un cattolico illuminato e volle ingaggiare Gaber nella stagione ufficiale, una delle più importanti d’Italia».

Lei che ricordi ha di Cuminetti?
«Trattavo con lui e capii che apprezzava Gaber, la sua onestà intellettuale, la scrittura. Stiamo parlando di una delle persone più competenti in assoluto del teatro italiano. Fissammo 4-5 spettacoli con dieci repliche ognuno. Ricordo che aveva promosso una serie di iniziative teatrali chiamate “Altri percorsi”, dedicate a forme di drammaturgia inedita fino ad allora. Erano i primordi degli Anni Ottanta, Cuminetti voleva creare un teatro per un pubblico più giovane. È stato tra i primi a dare vita a un cartellone parallelo a quello ufficiale dei teatri. Dopo di lui in tanti l’hanno seguito. Accanto alla prosa classica, Pirandello, Shakespeare, Brecht, Goldoni, creò questo percorso diciamo così alternativo e Gaber nell’86 vi portò Parlami d’amore Mariù. Faceva lo spettacolo, una pizza in una pizzeria vicina al teatro e poi a casa a Milano. Il giorno dopo ritornava a Bergamo piuttosto presto. Andiamo presto, mi diceva. Debbo vedermi con Benvenuto».

 

 

Un rapporto fecondo.
«Ricordo che nel periodo in cui recitò Il Grigio a Bergamo, Giorgio ebbe la possibilità di fare incontri col pubblico. In genere era il pomeriggio precedente all’ultima replica. E uno di questi incontri, promossi da Cuminetti, lo facemmo al Donizetti a teatro strapieno. Credo che fosse la prima esperienza di un faccia a faccia tra il protagonista di uno spettacolo e il suo pubblico. Gaber era al settimo cielo quando si incontrava con Cuminetti. Non era facile trovare interlocutori e direttori artistici di un profilo così nobile. Le loro discussioni erano sempre intense. Gaber di sinistra (non della sinistra) e Cuminetti cattolico, capace di riconoscere nel suo interlocutore uno spessore dal quale lo stesso Signor G poteva imparare a capire di più quelli che a tutta prima sembravano blocchi contrapposti. Cuminetti era dotato di una nobiltà che ti trasmetteva d’impulso... Non credo di esagerare ma quando si vedevano i loro incontri prendevano una dimensione di sacralità. Il loro punto di intesa era il mistero. Entrambi ne avevano consapevolezza. Giorgio aveva difficoltà a dargli voce, sostanza, Benvenuto lo definiva con chiarezza. Tutti e due esprimevano tensione e rispetto verso quel concetto così oscuro, ma intrigante. E quando è un tema così importante a unirti, i percorsi non sono mai conflittuali, né decisivi. Decisiva forse era l’utopia alla quale i due puntavano. Benvenuto era talmente intelligente che non poneva il dogma o il rito come condizione. Gaber non poteva porre la condizione dell’ideologia. Non gli interessava. A loro interessava un percorso diverso, impegnati a raggiungere la stessa meta. In questo si sentivano, direi, complici...».

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