A forza di politically correct s'è persa l'intelligente ironia

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Ricordo che negli anni ribelli della contestazione eri considerato borghese, superato e matusa se usavi proverbi e massime della tradizione popolare: immediatamente si era tacciati di abuso di luoghi comuni e per questo messi nella lista nera dei reazionari. «Tanto va la gatta al lardo», «Chi si loda s'imbroda», «Chi la fa l'aspetti» erano sicuro indizio di un retroterra culturale abietto, alquanto arretrato e poco incline alla trasformazione. Sembrava di essere immersi nel clima sognante ed esaltato di certi romanzi di Kundera in cui il protagonista schiaccia la propria esistenza e devasta amori in nome dell'ideale politico.

Da allora di tempo ne è passato e tanto, quell'epoca si è allontanata da noi come la nave che dice addio alla terraferma e senza accorgercene siamo stati proiettati in una specie di cyber spazio con regole tutte nuove e non sempre comprensibili. L'accelerazione incredibile impressa dai più recenti mezzi di comunicazione ha cambiato il mondo, lo ha reso senza dubbio tecnologicamente avanzato, ma la gente, le persone in carne ed ossa che fine hanno fatto? Secondo un paradigma acclarato, più avanza la tecnologia, più diminuisce la capacità di intelligere del singolo: componenti, insomma, inversamente proporzionali. Globalizzazione e politicamente corretto hanno dato in questo processo una solida mano, contribuendo a forme di regressione sul piano del patrimonio culturale di ognuno a livelli ormai allarmanti.

E i luoghi comuni, che fine hanno fatto? Mandati al macero i vecchi se ne sono acquisiti di nuovi che, in costanza di generale precarietà intellettuale, hanno attecchito con la forza delle verità bibliche, con l'arrogante prosopopea che viene dalle suggestioni di un sociale di moda. Ed ecco che è vietato usare parole come negro, cieco o spazzino, tanto per citare a caso. Pena sentire il fiato sul collo dei neo inquisitori, dei giustizialisti dell'ultim'ora capaci solo di fare copia incolla nella propria testa dei pensieri sparsi qua e là per l'etere. Chi ha studiato un po' di latino sa per certo che niger si traduce con nero, quindi la forma è esecrabile solo nella mente di chi lo crede: se si immagina il diavolo è perché lo si concepisce, diceva un filosofo. Allo stesso modo un cieco non guadagnerà la vista chiamandolo non vedente o uno spazzino non si insudicerà di meno apostrofandolo col termine operatore ecologico.

C'è un’espressione che più di tutte solleva il mio disappunto e a quel che ho potuto constatare girando per i social di molte donne: la parola femminicidio. Non ha senso: punto e basta. Un omicidio è tale e resta il più grave dei crimini a prescindere. E qui entra a gamba tesa il sociale di moda che, facendo di nuovo il lavoro di copia incolla, prende a prestito dalle consuetudini di oltreoceano, inclini a dare un nome a sensazione a tutto il possibile. Luoghi comuni. Basti pensare che ormai piogge, pioggerelline, solleone e nevicate, mareggiate e colpi di vento hanno bisogno di essere chiamati con nomi mitologici e altisonanti. Tutto deve essere definito e assumere la massificata e massificante potenza dello slogan, altrimenti non si fa la festa. Femminicidio appartiene a quella gamma di invenzioni a sensazione che non cambiano di una virgola la gravità del problema, ma ne fanno un'area a parte, ghettizzata, un po' come parlare di quote rosa.

Queste formulette, in realtà, piacciono da morire a tutti gli scarsamente scolarizzati del pianeta sui quali fanno presa come l'Attak, e questo il sistema lo sa bene. Morta totalmente l'ironia di cui nessuno più conosce il vero significato, né di conseguenza l'uso (l'ironia non è sinonimo di comicità), tutto si prende tremendamente sul serio e la forma prevale sulla sostanza. Le parole si sprecano e se ne fa abuso, l'italiano è diventato un'opinione, ma se pronuncio una di quelle messe all'indice da questo bizzarro sistema contemporaneo, apriti cielo: in un baleno l'ignorante di turno ti si getta addosso come una iena, forte di quel niente che ha imparato, e ti sbrana.

L'ultima riguarda la storia delle atlete «cicciottelle». Un fatto diventato cronaca di questi giorni. Ecco io vengo da un mondo più bello, più equilibrato e specialmente più saggio. Non appartiene al giurassico: qualche decennio fa e basta. Arco temporale che è bastato per stravolgere il buonsenso delle persone e per lasciare che, trascurando il peso di problemi seri, dessero importanza a cose risibili, di poca o nessuna evidente rilevanza. Io vengo da un mondo in cui molte di queste faccende si sarebbero risolte in una bella, libertaria e intelligente risata.

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