L'intervista

Giorgio Pasotti, dalle arti marziali alla notorietà: «È il cinema che ha trovato me»

Nato in Città Alta, è oggi un attore affermato e fa anche il regista. Dal 2020 dirige con successo il Teatro Stabile d’Abruzzo

Giorgio Pasotti, dalle arti marziali alla notorietà: «È il cinema che ha trovato me»
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di Bruno Silini

È un periodo intenso per Giorgio Pasotti, attore bergamasco tra i più noti in Italia. Al lavoro sul set e a quello di regista, ha affiancato la direzione del Teatro Stabile d’Abruzzo. Adesso, dice di aver «incasinato» ulteriormente la vita creando una produzione che si chiama Wonder Film. Dunque, una tranche de vie molto bella dal punto di vista professionale, ma anche molto piena.

Che rapporto ha con Bergamo?

«Sono nato in Città Alta, sui Colli. Sono cresciuto per le strade quando ancora era molto diverso dalla Città Alta di oggi. Era una zona, devo dire la verità, un po’ pericolosa. Fino ai 19 anni sono rimasto a Bergamo, quindi posso considerarmi assolutamente bergamasco doc. Del resto, ho ancora la residenza in città, anche se non ci vivo da trent’anni. Torno a trovare i genitori, gli amici e... per votare».

Quindi ha ancora contatti in città.

«Intanto, ho papà e mamma che vivono ancora in Città Alta, a Porta Dipinta. Poi, sì, ho diversi amici, alcuni dei quali sono dei professionisti affermati nel campo dell’architettura e dell’avvocatura».

Giorgio Pasotti

La Città Alta che ricorda era un quartieraccio, diceva.

«Stiamo parlando della fine degli anni Settanta, inizio Ottanta. Mi ricordo che verso mezzanotte arrivavano le volanti della polizia in Piazza Vecchia, zona di spaccio di eroina. Ho ancora in mente le figure di queste persone, anche giovani, che barcollavano nelle serate invernali, nella nebbia, al freddo. Per noi ragazzini erano figure inquietanti, un po’ paurose».

Si è definito anche uomo di montagna. Il luogo che più ama?

«Selvino e Clusone erano tappe quasi obbligate durante le estati con i compagni di oratorio. Poi ho il ricordo di Foppolo, mio zio aveva una casa lì. È dove ho imparato a sciare, come la nostra campionessa Sofia Goggia».

Ci torna ancora?

«Ci ho portato mia figlia. Devo dire che è cambiato poco, sostanzialmente è uguale a come me lo ricordavo».

È anche atalantino?

«Ho il cuore diviso a metà. Sono atalantino, ma anche interista. Tifo per la squadra della mia città, ma anche per l’Inter, la squadra di mio nonno. Fortunatamente, i colori aiutano».

E quando giocano contro?

«Spero in un pareggio».

Suo padre Mario l’ha iniziata al Wushu, un’antica arte marziale, e lei a 22 anni ha conquistato il quarto posto ai mondiali di Baltimora. È stato più volte campione italiano e due volte europeo. Se dovesse consigliare le arti marziali a qualcuno, cosa direbbe?

«Consiglierei a tutti i genitori di portare i propri figli in palestra e a fare lo stesso percorso che ho fatto io. Le arti marziali aiuterebbero tantissimo in una società come quella di oggi, dove si sono ersi un po’ i binari ed è facile deragliare, in cui non si hanno prospettive e solide speranze. Credo che praticare le arti marziali, con tutta la filosofia che accompagna ogni gesto, aiuti a rafforzare il carattere. Il Wushu, oltre a essere una disciplina fisicamente completa, trasmette il valore delle regole, il rispetto nei confronti degli insegnanti e dei rivali».

A 19 anni lei partì per la Cina. E si innamorò del cinema. È corretto?

«È avvenuto per caso. Sono andato in Cina con il progetto di diventare medico sportivo, all’Università dello Sport e della Medicina tradizionale cinese. E lì, per puro caso, mi chiesero di fare una parte in film di arti marziali come Treasure Hunt e The Drunken Master III. Iniziò così una carriera che non avevo né sognato né voluto, ma che mi sono trovato a praticare in maniera abbastanza naturale. Diciamo che il lavoro ha trovato me».

Nessun rimpianto?

«No, l’essere un attore mi ha regalato e mi sta regalando delle soddisfazioni incredibili e, soprattutto, ho scoperto che mi piace molto. Regalare delle emozioni a un pubblico è un grandissimo privilegio. Non lo considero un lavoro, ma un hobby meraviglioso che mi permette di mantenermi e di condurre una vita dignitosa».

Suo padre ha detto che è lei testardo, pacato, dolce, determinato, ambizioso di volersi mettere alla prova e anche umile. Ci si ritrova? Vuole aggiungere o togliere qualcosa?

«Se l’ha detto papà, è vero. Lo sottoscrivo. Mi fa piacere che abbia usato queste parole».

La sua popolarità arriva con la serie televisiva Distretto di Polizia. Ci racconta un episodio dove ha capito di essere diventato davvero popolare?

«In realtà, poco prima di Distretto di Polizia, io e altri tre giovani attori (Stefano Accorsi, Pierfrancesco Favino e Claudio Santamaria, ndr) siamo stati gli interpreti de L’ultimo bacio di Gabriele Muccino. Quel film straordinario regalò a tutti noi una grandissima notorietà a cui si è aggiunto l’incredibile successo di Distretto di Polizia. Quando nella fiction morì il mio personaggio, le signore per strada o al supermercato mi toccavano e mi chiedevano come stavo».

Cosa rispondeva?

«“Guardi, sto bene, non c'è assolutamente nessun problema”».

Ha invidiato ad Accorsi per il ruolo di protagonista ne L’ultimo bacio?

«No, voglio molto bene a Stefano, siamo molto amici e ci stimiamo. Quel film, che ha veramente sconvolto generazioni, ci ha legato molto».

Nel novembre 2020 è stato scelto come nuovo direttore del Teatro Stabile d’Abruzzo. Qual è la sua idea di cultura in quel ruolo?

«Il teatro è la palestra degli attori, è la casa degli attori, è dove l’attore sente il senso primo del proprio mestiere, dove percepisce la connessione con il pubblico. Cerco di interpretare il mio ruolo di responsabilità facendo delle programmazioni che da un lato rispettano il teatro nei termini più classici, ma dall’altro strizzano l’occhio anche al pubblico del futuro, i più giovani. Il teatro sta vivendo un momento molto delicato e il mio intento è di seminare curiosità, amore e passione verso quest’arte». (...)

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