L'intervista

Giovanna Mangili: una vita a salvare bambini al Papa Giovanni e poi vedi Gaza...

È andata in pensione dopo 45 anni, quindici dei quali a capo della Patologia neonatale. «Provo una grande rabbia di fronte a queste stragi degli innocenti»

Giovanna Mangili: una vita a salvare bambini al Papa Giovanni e poi vedi Gaza...
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di Paolo Aresi

Dottoressa Mangili, lei ha passato tutta la vita a lottare per salvare bambini appena nati che si trovavano in condizioni di pericolo, con gravissimi problemi di salute, alcuni nati con meno di cinquecento grammi di peso. Che cosa prova a leggere dei bambini che vengono uccisi a Gaza o in Ucraina?

«Una grande rabbia provo, una grande rabbia. L’umanità è capace di spendere grandi risorse per salvare un singolo bambino, poi riesce a compiere delle stragi come queste. Non c’è una risposta a tutto questo, non c’è una ragione valida che si possa sostenere, eppure le cose vanno così. Noi possiamo solo andare avanti con il nostro lavoro cercando di fare il meglio, fino in fondo. Ma il senso di rabbia e di scandalo non passa e la domanda sul perché rimane senza risposta».

Giovanna Mangili ha compiuto settant’anni, dopo quarantacinque di lavoro come medico è andata in pensione nei giorni scorsi. Negli ultimi quindici anni è stata responsabile della Patologia Neonatale dell’ospedale Papa Giovanni di Bergamo.

La dottoressa Mangili (a sinistra) nel reparto di Patologia neonatale del Papa Giovanni, prima della pensione

Dottoressa Mangili, e adesso?

«E adesso volto pagina. Non so che cosa farò, in questi giorni sono in vacanza. Non avevo preso le ferie perché tanto sapevo che sarei andata in pensione. Ho voluto lavorare fino all’ultimo giorno possibile perché ho sempre vissuto questo ruolo come qualcosa di molto importante e gratificante per me. Curare i bambini appena nati, cercare di dare loro un futuro è qualcosa di meraviglioso, di importantissimo. I bambini sono il bene più prezioso che abbiamo, sono una ricchezza inestimabile. Impegnarsi, lottare per loro è un privilegio, potrei dire».

Ne ha salvati tanti di bambini?

«Non li ho salvati io, li abbiamo salvati tutti insieme. Nel mio reparto lavorano centocinquanta persone, è un impegno di squadra, un lavoro attento e appassionato dove tutti danno il meglio di se stessi. A volte i miei collaboratori mi hanno commosso».

Dottoressa, come è iniziato tutto questo.

«È cominciato quando ho scelto di frequentare medicina. Forse una scelta prevedibile perché mio padre era medico, mio nonno era medico, mio fratello anche...».

Lei è bergamasca.

«Siamo una famiglia bergamasca di Pontida, ci teniamo molto alle nostre radici, al nostro paese. Mio marito è mancato alcuni anni fa, non era bergamasco, ma si considerava pontidese di adozione. Le nostre due figlie pure sono affezionate».

Parlavamo degli esordi.

«Ero una ragazza piuttosto timida, insicura. Non ero convinta di farcela a finire Medicina, invece è andato tutto bene. Mi sono laureata nel 1980, avevo venticinque anni, ho iniziato a lavorare agli Spedali Civili di Brescia in pediatria e allergologia infantile. Poi a Bergamo da Pavia è arrivato il dottor Angelo Colombo, io conoscevo bene sia lui che la moglie perché avevo frequentato l’Università di Pavia e proprio con sua moglie avevo preparato la tesi di laurea in Patologia neonatale... Colombo divenne primario e mi chiamò agli Ospedali Riuniti e io accettai. Trentacinque anni fa».

Una combinazione particolare.

«Sì, io credo nelle combinazioni, non nel caso fortuito. Credo che ci sia un disegno, che ci siano dei segni da cogliere nella vita. Le mie figlie mi prendono in giro per queste idee, ma io credo che, per quanto spesso misterioso, un senso degli accadimenti esista».

Il suo è un lavoro delicato.

«Molto delicato, abbiamo a che fare con i bambini più fragili, spesso in bilico tra la vita e la morte. A volte ci chiediamo fino a che punto ci si possa spingere nel tentativo di salvare un bambino. Ci sono tante considerazioni da fare, sulle sofferenze, sui rischi... ma non ci sono risposte vere. Allora io penso che, anche in questo caso, noi dobbiamo cercare di fare al meglio il nostro lavoro, che questo è il nostro dovere. È la cosa più importante».

In un reparto come il vostro l’aspetto emotivo è molto forte.

«Molto, sì. Il fatto è che lotti per salvare un bambino appena nato, nasce un rapporto con i suoi genitori, ti affezioni... quando le cose vanno male è un momento davvero difficile».

Ci racconti qualche caso in cui è finita bene.

«Claudio era nato sui 470 grammi di peso, con lui abbiamo iniziato una battaglia dura, quindici mesi di ricovero da noi, terapia intensiva e via dicendo. Alla fine è andato a casa, l’ho accompagnato io con l’ossigeno, le bombole». (...)

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