I novant'anni di Gianni Bergamelli: «Che bel campà sunà e piturà»
Con la sua orchestra ha girato tutta l’Italia rivaleggiando con Fred Buscaglione e Carosone. La sera in cui a Rimini accompagnò Mina, e al Donizetti con Keith Jarrett.
di Paolo Aresi
Gianni Bergamelli, ha compiuto novant’anni il 26 luglio scorso, ma dicono che ne dimostri settanta. Nato a Nembro da una famiglia povera («quanta fame ho sofferto, è per questo che anche oggi mangerei sempre»), tuttora vive in paese: se si vuole incontrarlo, basta andare in piazza verso le dieci, facile che lo si trovi davanti a uno dei due caffè. È musicista e pittore da una vita; Bergamelli ha coniato uno slogan che spiega la sua esistenza: «Che bel campà, sunà e piturà».
Bergamelli, progetti futuri?
«Dal 2 fino al 18 di ottobre si farà al centro San Bartolomeo una mia mostra. Doveva essere a marzo, ma con il Covid è saltata. Adesso dovrebbe essere la volta buona. Il Covid è stato un passaggio terribile, lo sappiamo tutti, specie nei nostri paesi. All’inizio non lo avevo considerato così grave, ma mi sono ricreduto».
Altre iniziative?
«Siccome nella vita ho fatto il pittore e il musicista, è in programma anche un concerto all’Accademia Carrara, suonerà Gianluigi Trovesi e sullo sfondo ci saranno le mie opere proiettate; ci saremo anche Oreste Castagna, Fabio Santini e io che racconteremo un po’ di cose».
Trovesi è molto più giovane di lei, ma è come un fratello.
«Lui è un grande musicista. Quando aveva quattro anni veniva con il suo papà che suonava la batteria con me, al sabato e la domenica, al Dopolavoro di Nembro (era un locale dove si ballava, si trovava dove oggi ha sede il municipio). Era il 1948, io avevo diciotto anni. Gianluigi stava in piedi e il papà lo lasciava suonare un po’ la batteria e lui era già bravo, sapeva tenere il tempo».
Ma è vero che due settimane fa avete fatto insieme un concerto all’hotel Milano di Bratto e la gente faceva gli auguri a Trovesi?
«Sì, è vero. Io ho sempre dimostrato meno dei miei anni».
Qual è il segreto?
«Nessun segreto, posso dire che nella vita ho fatto quello che mi piaceva. E che sono stato attento a non esagerare nelle cose. Tutto lì».
Ma lei è più musicista o più pittore?
«Volevo fare il pittore, a scuola ero bravo, ma quando avevo tredici anni, in oratorio, qui a Nembro, vidi un pianoforte e misi le mani sulla tastiera e mi piaceva sentire quei suoni e allora mi sono messo a imparare, a orecchio, poi ho comperato un metodo musicale. E sono diventato musicista. A quindici anni, appena finita la guerra, suonavo già nelle balere».
Appena finita la guerra?
«Sì, dopo quei terribili anni, la gente aveva voglia di rinascere. Altro che Covid, la guerra è qualcosa di devastante, di terribile, inimmaginabile. È la violenza fisica e morale, la paura, sono le bombe, i fucili, le esecuzioni, il coprifuoco. Ma la nostra gente ha una grande forza dentro e voleva ripartire, creare un mondo nuovo. E aveva bisogno di allegria. C’erano balere dappertutto dopo quegli anni di tragedia. Il popolo voleva ballare, divertirsi, lavorare, lasciarsi alle spalle quella disperazione. A Nembro c’era il Dopolavoro, le Tre Tette a Ponte Nossa, ma ogni paese aveva la sua balera. A Bergamo c’erano l’Estudiantina in via Tasso, il Cristallo in borgo Santa Caterina (dove oggi c’è la pizzeria Vesuvio), il Minerva alla stazione che era frequentato soprattutto da soldati e cameriere, lo Smeraldo davanti all’hotel San Marco...».
Il suo primo concerto?
«Non un concerto, ma un’esibizione per fare ballare la gente. L’ultimo dell’anno del 1945, al Dopolavoro di Nembro. Suonavo lì sempre al sabato e alla domenica (pomeriggio e sera)».
Facevate il liscio?
«No, no, macché. Facevamo lo swing, suonavamo e ci ispiravamo a Cole Porter, a Gershwin. Facevamo il foxtrot, ma anche il boogie e lo slow, il lento, così le coppie potevano abbracciarsi, accarezzarsi».
Come era fatta la balera?
«C’era la pista da ballo e intorno i tavolini, c’era gente di età diverse, c’erano coppie e singoli. La gente si alzava dai tavoli, ballava, poi tornava a sedersi, consumava qualcosa. Gli uomini andavano a invitare a ballare le ragazze libere... il liscio è arrivato molti anni dopo, per noi è stata una profanazione, uno scadimento».
Lei suonava solo a Nembro?
«Alla fine degli anni Quaranta avevo girato tutte le balere della Bergamasca e cominciavo a suonare nei night club, li ho fatti tutti, dall’Astoria di Milano, il più prestigioso, a Sanremo, Venezia, Roma, a Napoli suonavamo al Trocadero che era della contessa Piacitelli che durante le prove stava in sala a fumare il toscano, seduta... Ci avvicendavamo con altre orchestre di Fred Buscaglione, Bruno Martino, Peppino di Capri, Carosone, ma anche con Gino Paoli, Fausto Leali... Al Milano City Club facevano anche tre gruppi per sera. L’orchestra Bergamelli ha girato anche in Svezia, Germania, Francia... Una volta, a Rimini, abbiamo accompagnato Mina perché aveva avuto problemi con i suoi musicisti, si era ammalato qualcuno».
Come era fatta l’orchestra?
«Avevamo pianoforte, contrabbasso, tromba, trombone, un paio di sax, batteria. Non c’erano chitarre, quelle le ha portate la rivoluzione dei Beatles. Per un po’ di anni le chitarre hanno fatto sparire i fiati».
Che cosa si faceva nei night?
«C’erano spettacoli con musica dal vivo, ballo, spettacoli vari dal prestigiatore allo strip tease, che non era mai integrale. Per entrare al night dovevi essere elegante, con giacca e cravatta. Poi con gli anni Sessanta i tempi sono cambiati, la malavita si è impossessata di diversi locali importanti. Ricordo il periodo di Francis Turatello, della banda di via Osoppo a Milano... Una volta, a Milano ci fu una sparatoria, noi che suonavamo ci sdraiammo sotto il pianoforte».
Come nel Far West.
«Sì».
Lei ha fatto anche il jazz.
«Sì, avevo la passione, ero molto amico di Paolo Arzano, giornalista, grande esperto di jazz. Con lui abbiamo fondato un’associazione che nel 1969 ha lanciato al Donizetti il famoso Festival Jazz che poi diverse città ci hanno copiato. Nel 1970 ci fu l’esordio di Trovesi a livello internazionale. Per l’organizzazione era importante l’aiuto dell’Azienda autonoma di turismo, con Filippo Siebaneck».
Venne anche Keith Jarrett.
«Sì, e tanti altri, anche Chick Korea, Bill Evans, Jerry Mulligan per esempio. Jarrett si esibì sul palco del Donizetti proprio dopo di me e Trovesi. A guardarlo al pianoforte, mi faceva passare la voglia di suonare perché era troppo bravo. Poi quella sera si andò tutti all’hotel Moderno e si tirò mattina. Jarrett suonò per quattro ore la batteria».