Il prof Virgilio Bernardoni: «Il mio compagno di studi Giacomo (Puccini): un genio»
Da una vita lo studioso dell'Università di Bergamo fa ricerche sul grande compositore toscano, del quale ricorrono i cento anni dalla morte
di Bruno Silini
Da trent’anni si occupa di Giacomo Puccini: è della metà degli anni Novanta la sua prima pubblicazione sul compositore di Lucca. Si trattava di una raccolta di saggi di autori diversi, apparsi su riviste internazionali che Virgilio Bernardoni ha raccolto, tradotto e commentato. Da 25 anni insegna Musicologia e Storia della musica all’Università di Bergamo.
Venerdì 29 novembre sono caduti i cent’anni della morte di Puccini. Lei ha giocato d’anticipo avendo pubblicato l’anno scorso un volume di 500 pagine.
«Non intenzionalmente. Il volume rientra in una collana del Saggiatore progettata nel 2019, dal titolo L’opera italiana, che comprende, oltre Puccini, anche Rossini, Donizetti, Bellini e Verdi. La pubblicazione della mia monografia è andata in coda alle altre e così si è arrivati giusto alla vigilia del centenario».
Qual è la caratteristica fondamentale rispetto alle altre opere che circolano su Puccini? Cosa la contraddistingue?
«Essenzialmente due. Innanzitutto, un più ampio livello di informazione. Il libro tratta anche l’attività considerevole del Puccini giovane, prima che componesse opere per il teatro: un aspetto quasi totalmente ignorato in altre monografie, tant’è che si dipingeva Puccini come un musicista che ha impiegato un tempo lunghissimo a formarsi, un po’ lento, un po’ pigro».
Tutte fake news?
«Assolutamente. Puccini ha iniziato a lavorare a 12 anni. Ora le composizioni di quel periodo sono state recuperate, soprattutto quelle per organo, essendo l’organista la sua professione fino ai 22 anni».
Il secondo aspetto di novità?
«Ho raccontato il Puccini maturo soprattutto dal punto di vista della sua propensione intellettuale. Non mi interessavano tanto i soliti aneddoti, ormai abusati, sulla caccia, le automobili, le barche, la sensibilità spiccata per il fascino femminile. Ho cercato, invece, di indagare - per quel che è possibile fare attraverso l’analisi soprattutto delle sue lettere - il modo di elaborare l’idea dell’opera. Ho inseguito i percorsi intellettuali di un musicista il quale è stato anche un uomo di cultura, dalle letture importanti, con un ventaglio di inclinazioni verso il teatro, la letteratura, l’arte, il cinema e la fotografia».
Perché concentrarsi su Puccini e non Verdi, o Donizetti?
«Sono i casi della vita. A metà degli anni Novanta, l’editore Il Mulino mi propose di realizzare un’antologia di saggi dedicata a un autore a scelta fra Béla Bartók e Giacomo Puccini. Io ero affascinato da Bartók, dalla sua musica strumentale, ma c’era un handicap».
Quale?
«Non conoscevo l’ungherese, la lingua nativa di Bartók, e quindi non ero in grado di mettermi in rapporto diretto con i suoi testi. Allora, giocoforza, optai per Puccini. E questa monografia che uscì nel 1996 mi aprì la strada al Centro Studi Giacomo Puccini, costituito a Lucca proprio quell’anno da un gruppo di colleghi. Da allora Puccini è diventato, se non l’unico, sicuramente il mio principale punto di attenzione, un compagno quotidiano, tant’è che ormai normalmente, riferendomi a lui, lo chiamo Giacomo».
Bergamo e Puccini: è possibile tracciare un legame con la nostra città?
«Non è facilissimo. A Bergamo certamente venne, però non so di fatti notevoli legati alla sua presenza in città. I poli della sua esistenza furono Torre del Lago (nel Lucchese) e Milano e una serie di ville in Garfagnana, all’Abetone, in Maremma, a Viareggio».
Ma stava bene di famiglia oppure erano tutti soldi guadagnati da sé?
«Con la sua musica divenne uno degli uomini più ricchi d’Italia. Nell’arco dell’anno guadagnava centinaia di volte più di un lavoratore comune».
Torniamo al suo rapporto, se c’è, con Bergamo.
«In gioventù visse per un certo tempo in semi clandestinità a Caprino Bergamasco (...)