L'intervista

Irene Foresti, la Cavaliera della Polenta che scrive libri sulla cucina tradizionale bergamasca

La tecnologa alimentare: «Il segreto di una buona polenta? La farina giusta. Diffido di quelle precotte, trappole per milanesi». Esaurito il volume sui formaggi

Irene Foresti, la Cavaliera della Polenta che scrive libri sulla cucina tradizionale bergamasca

di Bruno Silini

La cucina della mamma, della nonna, della zia, di casa o anche solo del paese natio racchiudono un prezioso universo culturale. Sta qui l’architrave che regge i libri Irene Foresti, che s’è fatta un nome con le sue opere sul buon cibo tradizionale editi dal Centro Studi Valle Imagna.

Lei è di Tavernola. Come è entrata in contatto con il Centro studi?

«Quando ho scritto Cibo e terra e lavoro. Cultura ed etnografia alimentare nella storia sociale della Valle Brembana, era quasi dieci anni fa. L’editore con cui lavoravo (Edizioni Sebinius di Sarnico) è morto e la casa editrice ha chiuso; a mettermi in contatto con Antonio Carminati del Centro studi Valle Imagna è stato lo chansonnier Luciano Ravasio. Da lì è nato un filone di libri sul cibo e alimentazione che ha riscosso un buon successo. Per dire, il libro sugli stracchini è finito, non ce n’è più neanche una copia».

Polenta, stracchini, casoncelli. Perché questa scelta?

«Sono una tecnologa alimentare specializzata in ristorazione collettiva in mense, ospedali e scuole. All’università ho dato un esame di storia dell’alimentazione che mi è piaciuto; avrei voluto fare il master in Storia dell’alimentazione all’Università di Pollenzo (nata e promossa nel 2004 dall’associazione internazionale Slow Food, ndr), ma costa 20 mila euro l’anno… Il pezzo di carta ce l’ho già e ho un lavoro, quindi ho studiato da sola, per passione. I libri, a oggi, sono sette. Poi ho collaborato con il Seminario permanente Luigi Veronelli con un periodico che si chiamava Tipico in tavola (estinto) e scrivo per il giornale della Fice (Federazione italiana circolo enogastronomici) per conto dell’Ordine dei Cavalieri della Polenta di Bergamo, che mi ha nominato “dama scrittrice”».

A Bergamo c’è un ordine dei Cavalieri della Polenta?

«Certamente. Il Gran Maestro è Sergio Solazzi. L’ambasciatore è Morris Sigismondi, carica assunta dopo la sua sortita all’estero a cucinare la polenta nell’ambito della rete delle Città Creative Unesco. Ci si trova in modo conviviale, una volta al mese, e sono banditi argomenti come sport e politica: è proprio un momento di amicizia con “i gambe sota al tàol”. Purtroppo, non sempre riesco ad andare. E a tavola la polenta è sempre la protagonista nelle versioni che decide il ristoratore. Sono anche occasioni per far conoscere posti che lavorano bene sui prodotti locali».

Esiste un documento che attesti la polenta in Bergamasca?

«Rintracciare queste cose è difficile. Bisognerebbe entrare nelle case dove la nonna della nonna ha scritto un ricettario. E poi la ricetta della polenta è “acqua, sale, fuoco e menarla”: è difficile trovare tracce scritte di ricette così semplici. Più facile è trovare attestazioni iconografiche, ma non a Bergamo».

E un posto dove, secondo lei, la polenta merita davvero di essere assaggiata?

«Dipende dai grani e da come la fanno. Alcuni ristoranti hanno (…)

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