Nasceva oggi, cent'anni fa

Joe DiMaggio, una leggenda in cui è bello credere ancora

Joe DiMaggio, una leggenda in cui è bello credere ancora
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«Where have you gone, Joe Di Maggio? A nation turns its lonely eyes to you.
What's that you say, Mrs. Robinson? Joltin Joe has left and gone away.»
(Simon & Garfunkel, Mrs. Robinson)

 Dove sei andato, Joe Di Maggio? Una nazione volge i suoi occhi malinconici verso di te.
Che cos'è che dici, Sig.ra Robinson? Il grande Joe ha lasciato ed è andato via. 

 

Esattamente 100 anni fa, il 25 novembre 1914, nasceva Joe DiMaggio. Io non l’ho mai visto giocare, lui. Anzi, ad essere precisi, l’ho visto giusto solamente in foto. E non mi piace il baseball, lo trovo maledettamente noioso, il baseball. Gioco lento, atleti con parecchi chili di troppo, regole complicate: ma chi diavolo potrebbe mai giocarci per una vita intera, a baseball?

Eppure, nonostante tutto questo, Joe DiMaggio è un nome che al solo sentirlo pronunciare risveglia in me qualcosa di strano, una reverenza inspiegabile per una figura che, chissà come mai, dopo tutti questi decenni riesce ancora ad affascinare come fossimo ancora in quei caotici e meravigliosi anni Cinquanta e Sessanta targati Stati Uniti d’America, dove la vita era un sogno, ma era sognare che rendeva vivi, e Joe DiMaggio era un sogno vivente. Era l’emblema del povero figlio di pescatori, uno di troppi figli per poter sperare nelle grazie di mammà, e che ha fatto all-in sul suo talento, nulla va più, o raddoppi o affoghi.

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Ma se la storia fosse tutta qui, che noia sarebbe? Noi vogliamo il colpo di scena, la svolta imprevista, siamo americani diavolo, vogliamo l’uomo che sa rialzarsi, non una Cenerentola qualsiasi con la fatina che risolve tutto da un momento all’altro. Vogliamo gente come Joe, che a vent’anni sbriciola il legamento del ginocchio e sembra anche la sua carriera. Un infortunio di gioco? Suvvia, è pur sempre baseball… Un gradino maligno di un autobus, un gradino con le sembianze di una sveglia che lo desta proprio nel mezzo del suo sogno americano.

Coraggio Joe, riabilitati e fatti notare dal talent scout dei New York Yankees, che non esita ad ingaggiarti e a preparare piuma e calamaio per una sfavillante pagina della storia. E sia ben chiaro, non solo una pagina di storia sportiva, ma di società, di costume, di esempi a cui ispirarsi tanto nei campetti quanto nella più comune quotidianità, una meravigliosa sceneggiatura hollywoodiana in cui, caro Joe, non sei l’attore protagonista, sei il copione stesso, che hai pensato e scritto per la tua vita, che hai girato allo Yankee Stadium ma hai ambientato nella testa di tutti.

Joe DiMaggio scendeva in campo, e cominciava lo spettacolo: dicono che ci siano cinque giocate nel baseball, e solitamente un giocatore riesce a specializzarsi in solo una di queste: correre fra le basi, prendere la palla, lanciare la palla, colpire la palla, spedirla a casa di Dio, la palla. “Joltin’ Joe” sapeva fare tutte queste cose, e meglio di chiunque altro. In tredici anni, sotto la Statua della Libertà, arrivarono ben nove titoli.

 

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Ma si parlava di sceneggiature hollywoodiane, stavolta però quelle che ti hanno visto di mezzo per davvero, Joe: la volevi tutta per te Marilyn Monroe, proprio non ti andava giù che quel bel visino fosse ammirato e commentato da tutto il mondo, nei cinema e nelle case. L’hai sposata, è durata solo nove mesi. Ma cosa importa a noi, lo sportivo del secolo insieme alla donna più bella del mondo! Era un sogno vissuto ad occhi aperti, di quelli che non si vede l’ora al mattino di tirarsi su dal letto per ricominciare a gustarselo perché è quello che ogni americano vuole, ad ammirare di come l’America offra ogni cosa se solo ci si crede con un po’ di convinzione.

Le tappe si susseguono rapidamente: nel 1955 Joe entra nella Baseball Hall of Fame, nel 1969 è eletto miglior giocatore di baseball vivente con un plebiscito da parte di giornalisti e appassionati. Una popolarità che lo avrebbe accompagnato fino alla sua morte, nel 1999. Chi è allora Joe DiMaggio, cavaliere armato di mazza da baseball che ancora oggi, dall’altra parte del mondo, dove il baseball viene prima delle bocce unicamente sul dizionario, riesce ad evocare la gloria eterna solo pensandolo? Joe DiMaggio è stato un eroe, il paladino della vita di tutti, che con sacrificio e dedizione ha conquistato ogni cosa, ha dominato un mondo che non vede l’ora di farsi razziare da gente come lui.

Ma soprattutto è stato metafisica, il simbolo significante di un sogno significato che appartiene a tutti noi, ovvero quello di essere una leggenda. Nell’anno di grazia 2014, ancora oggi, anche in Italia, pensiamo con timore reverenziale e mistico a Joe DiMaggio, perché la sua vita è stato il realizzarsi dei desideri non solo degli americani, ma di tutti noi. Senza invidia, senza rancore, ma con stima, quasi con affetto nei confronti di chi non sarà mai dimenticato. Anche se è morto. «L’uomo può essere ucciso, ma non sconfitto», dice Santiago, protagonista de Il vecchio e il mare (Hemingway), guarda caso proprio inguaribile tifoso di DiMaggio. Joe DiMaggio ha vinto la diffidenza verso il mondo, verso il futuro incerto, è il trionfo dell’ottimismo e della speranza nei riguardi della vita. Penso a Joe DiMaggio, allora, e comincio a sognare.

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