Il K2 dei bergamaschi Chi ce l'ha fatta e chi quasi
Gruppo del Karakorum, Himalaya. Oppure, confine tra il Kashmir pakistano e la Provincia Autonoma di Tashkurgan, Cina. È qui che si trova il K2 (Ketu in lingua balti), la montagna che si innalza per 8.611 metri e che è la seconda più alta del mondo, dopo l’Everest. Il K2 è una montagna così difficile, da avere confuso le idee anche a T.G. Montgomery, membro della spedizione che effettuò i primi rilevamenti, nel 1856. Per uno sbaglio di misurazione, si credette che fosse più bassa del Masherbrum (K1). Così le è stato affibbiato quel 2. Che poi, però, è stato lasciato, perché in effetti è montagna seconda lo è davvero, anche se solo rispetto all’Everest. L’ascesa è tra le imprese più complicate, per gli alpinisti, a causa dell’estrema ripidità dei versanti. Il 31 luglio 1954, però, una spedizione italiana c’è riuscita, a conquistare la vetta.
I preparativi e l’attrezzatura. La spedizione italiana, affidata a Ardito Desio, era stata organizzata dal CAI (Club Alpino Italiano), finanziata dal Consiglio Nazionale delle Ricerche e dal Comitato olimpico nazionale. I preparativi atletici erano iniziati fin dal gennaio, e si erano svolti sul Monte Rosa e ai piedi del Piccolo Cervino, in Svizzera. In questi giorni era stata collaudata l’attrezzatura, studiata da una apposita sottocommissione CAI, che si era avvalsa delle esperienze maturate durante la guerra. E così: due paia di calze di lana, mutande lunghe di termomaglia, due paia di calzoni, uno di flanella, l’altro di duvet. Ancora, sopra, un paio di calzoni di tela impermeabile. Poi, una maglia di lana, una camicia di flanella, un maglione pesante da sciatore, un giaccone di duvet, una giacca a vento impermeabile. Guanti di seta sotto a guantoni di pelle imbottiti di lana, per proteggere le mani. Infine, per la testa, un berretto di pelle d'agnello. Le scarpe erano di tre tipi e vennero fornite dall’azienda Dolomite. Il primo paio, in cuoio, andava bene per le basse altitudini. Il secondo, con uno strato di pelliccia di opossum fra tomaia e fodera e fra i due sottopiedi, rispettivamente in cuoio e in feltro, avrebbe portato i piedi degli alpinisti fino ai 7mila metri. Infine, il terzo paio, pesante due e chili e mezzo per scarpa, era fatto di pelle e andava infilato dentro stivali di renna. Il modello, già testato sull'Everest, doveva essere impiegato per l’ascesa finale. A tutto questo, andavano aggiunti i ramponi, le tende e le bombole d’ossigeno. Imprescindibili.
La squadra. Guidata da Ardito Desio, contava trenta persone, tra alpinisti, ricercatori e portatori hanzu. La via scelta per la scalata era la Sperone Bruzzi, posta sul versante pakistano. Era stata scoperta da un italiano, Luigi Amedeo di Savoia duca degli Abruzzi, nel 1909. La spedizione di Desio era giunta in Pakistan alla fine di giugno. Il 30 luglio era riuscita a raggiungere più di 7000 metri di altitudine. Achille Compagnoni e Lino Lacedelli proseguono per installare il campo IX a 7900 metri. Walter Bonatti e Amir Mahdi tornano invece al campo VIII per recuperare le bombole di ossigeno necessarie ai compagni. Ciascuna bombola pesava circa 20 chili. Insieme a un altro alpinista, Abram, riprendono la salita, ma non trovano il campo IX nel punto che era stato concordato. Era stato infatti piazzato 250 metri più in alto. Abram non ha più forze ed è costretto a tornare indietro, mentre Bonatti e Mahdi proseguono e passano la notte all’addiaccio, su uno spiazzo di pochi metri scavato con le piccozze. All’alba del 31 luglio, Mahdi deve scendere, perché nella notte ha riportato gravi congelamenti, seguito poco dopo da Bonatti. Intanto, Compagnoni e Lacedelli partono dal loro campo, scendono fino al luogo i cui i due alpinisti hanno trascorso le ore notturne e prelevano le bombole che erano state lasciate dal ventiquattrenne Bonatti. Compagnoni e Lacedelli possono così riprendere l’ascensione. Alle ore 18, raggiungono la vetta, dove vengono infisse la bandiera italiana e, insieme, quella pakistana. Gli italiani vengono informati della riuscita dell’impresa tre giorni dopo: il K2 divenne la montagna degli italiani, quella su cui “gli italiani misero i piedi”.
Diverse versioni dei fatti (ma è una storia finita). Dopo il ritorno in Italia, Desio scrisse una relazione ufficiale della spedizione, adottata dal CAI e pubblicata in un libro, La conquista del K2. Bonatti, però, notò discrepanze tra gli eventi che aveva vissuto e il racconto che ne era stato fatto. In particolare, Compagnoni affermava che l’ossigeno si era esaurito verso le 16.00, prima di raggiungere la vetta. Ne aveva dedotto che le due bombole fossero già state utilizzate. Bonatti non replicò, perché sperava di avere un chiarimento privato, con i suoi compagni. Nel 1961, però, pubblicò la sua autobiografia, Le mie montagne, raccontando l’impresa del K2 in un capitolo. Tre anni dopo, sulla «Nuova Gazzetta del Popolo», Nino Giglio scrisse due articoli gravemente accusatori nei confronti di Bonatti, che face causa per diffamazione. Giglio dovette smentire le sue dichiarazioni.
La questione si riaprì nel 1994, quando l’ australiano Robert Marshall, appassionato di alpinismo, pubblicò alcune foto in cui Compagnoni ha la maschera d’ossigeno ancora collegata alla bombola, mentre Lacedelli ha intorno alla bocca la brina che si produce quando si ha respirato in una maschera d’ ossigeno. Le conseguenze sono facilmente deducibili.
A questo punto, il CAI pubblicò una revisione storica operata da Roberto Mantovani e, nel 2004, organizzò una commissione di tre saggi, Fosco Maraini, Alberto Monticone e Luigi Zanzi. La relazione venne consegnata il 30 aprile 2004 e, nel 2007 inclusa nel libro K2 - Una storia finita. La versione di Bonatti venne accettata anche dalla Società Geografica Italiana.
Compagnoni e Lacedelli
Compagnoni e Lacedelli
Lino Lacedelli
Walter Bonatti
I Bergamaschi che ci hanno provato e che si sono riusciti (comunque). Dopo Walter Bonatti, che a Bergamo è nato il 22 giugno 1930, altri sono stati i concittadini che hanno tentato l’impresa del K2. Nel 1983 Agostino Da Polenza, nato il 28 agosto 1955, a Gazzaniga, è stato il primo bergamasco a toccare la vetta. Faceva parte della sua spedizione anche Pierangelo Zanga, oggi gestore del ristorante K2 ad Altino. Rinunciando alla salita per aiutare un compagno di spedizione in difficoltà, permise ai compagni di proseguire la scalata e di raggiungere la vetta. Nel 2004, in occasione del cinquantesimo anniversario, è stata organizzata un’altra spedizione, Everest-K2, coordinata da Agostino da Polenza, con Silvio Mondinelli, Mario Merelli, Pierangelo Maurizio e Nadia Tiraboschi. Merelli, originario di Lizzola, frazione di Valbondione, ha compiuto un altro tentativo nel 2010, insieme a Marco Zaffaroni. Mario è scomparso recentemente, nel 2012, mentre cercava di raggiungere la punta di Scais sulle orobie di casa. Avviato all’alpinismo dal padre Patrizio, aveva toccato la vetta dell’Everest per due volte. Dei quattordici Ottomila ne conquistò 10.
Nel luglio 2006 si ritenta. Ad averla vinta, questa volta, è una donna, Nives Meroi. Nata a Bonate Sotto, risiede a Tarvisio. Non hanno avuto bisogno di ossigeno, lei e il marito, Romano Benet. Il K2 l’hanno preso da soli, senza aiuto e senza portatori. Sempre nel 2006, si ricorda l’impresa invernale di Simone Moro, che però, date le difficilissime condizioni ambientali, non ebbe successo. Un altro alpinista di nazionalità kazaka e bergamasco d’adozione, Denis Urubko è salito in vetta nell'ottobre 2007 dal versante cinese. Da dieci anni ha stabilito il suo campo–base qui a Bergamo ed è socio del Cai di Bergamo.
I nomi sono tanti, forse qualcuno è rimasto nella penna. Quelli citati possono valere, e con onore, per tutti gli altri, che ci sono stati e che, ci si augura, ci saranno. Come il filo di nylon rosso lasciato rimasto sui crinali del K2 dal 1954, sono nomi che passano la mano, o i piedi.