Fondatore del Teatro Prova

La festa a sorpresa alle Grazie per Giovanni Locatelli, maestro di recitazione che ha fatto 90

Ha formato decine di giovani attori, tra i quali Maurizio Donadoni. Una passione nata a 13 anni: «Tutti risero, ma quel giorno sul palco scoprii che potevo diventare qualcun altro»

La festa a sorpresa alle Grazie per Giovanni Locatelli, maestro di recitazione che ha fatto 90
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di Maria Teresa Birolini

Giovanni Locatelli ha compiuto novant'anni: è stato uno fra i maggiori protagonisti di quella straordinaria esperienza che fu la scuola del Teatro alle Grazie, partita nel 1958 e fortemente voluta da monsignor Marco Farina, fine intellettuale, allora parroco delle Grazie. Gli amici di Giovanni Locatelli lo hanno festeggiato a sorpresa, proprio in quel teatro. Giovanni è sposato, ha tre figli e tre nipoti.

Cosa ha pensato quando ha visto tutte quelle persone in teatro, la sera del suo compleanno?

«Mi hanno riempito il cuore fino alla commozione. C’erano volti che non vedevo da qualche tempo, altri come Piero Marcellini che negli anni d’oro ha condiviso con me quell’esperienza irripetibile della scuola di recitazione. Ho sentito una grande gioia».

Da quel 1958 è trascorsa è una vita. Come arrivò alla scuola di recitazione delle Grazie?

«C’era, come regista, Vanni Zanella, che a quei tempi aveva inventato una rivista dal nome “Lo Zanni” e già questo la dice lunga sulla lungimiranza di questo illustre architetto. Entrai nella scuola, ma non riuscii a terminarla perché partii per il servizio militare. Al rientro, nel 1960, proposi a monsignor Farina di fondare una compagnia teatrale vera e propria, ma il consiglio pastorale non era dell’idea. Nel gruppo di allievi ricordo che c’era anche Laura Roncalli, poi moglie del grande cardiochirurgo Lucio Parenzan. Formammo una compagnia, provavamo dove capitava, anche in un garage di via Partigiani e poi trovammo uno spazio in Cittadella. A Laura venne in mente il nome “Teatro Tascabile” che richiamava alcune esperienze francesi di teatro fatto con poco e con piccoli spazi. Lei faceva parte anche del Centro teatrale universitario di Milano e ci fece conoscere dei giovani attori milanesi che si aggregarono e poi guidarono il Ttb».

Nel 1976 lei ha fondato insieme a Umberto Verdoni il “Teatro Prova”. Dai suoi corsi di recitazione sono emersi alcuni importanti attori della scena nazionale, come Maurizio Donadoni. Eppure lei non ha mai fatto l’attore di professione.

«C’è una caratteristica che decide il destino delle persone, la determinazione. Che comprende certamente la passione, l’impegno, ma diventa poi ben altro. Durante il periodo del militare conobbi uno scrittore che mi presentò al direttore della Rai, a Roma. Un uomo distinto che mi parlò con estrema onestà. Mi disse: “Guardi, per fare qualche parte in qualche programma va bene, però tengo a precisarle alcune cose: in questo ambiente funziona così, non necessariamente quello che gli attori guadagnano rimane in tasca a loro”. Ecco, se fossi stato davvero determinato ci avrei comunque provato. Invece, tornai a Bergamo e iniziai a lavorare come programmatore a Milano, continuando a recitare e poi a insegnare recitazione. C’è da fare molta attenzione però, determinazione e bravura non coincidono sempre. Quindi la determinazione non sempre porta alla competenza. Ci sono persone determinate e squilibrate: si generano i mostri. La cieca determinazione conduce ai mostri della storia. Penso a certi politici, penso a Putin: è un esempio chiaro di determinazione, di folle determinazione».

Putin ci fa pensare alla guerra. Lei è nato nel 1932, , che cosa ricorda della guerra, qui da noi?

«Io vivo in un appartamento pieno di libri, quelli più numerosi riguardano la Shoah. Sa perché? Perché ho ancora negli occhi le immagini dei muri con i volti degli ebrei, vedevo che cosa stava accadendo; eppure nella mia, come in tante altre case, per molto tempo, non se ne è parlato: mia madre era socialista, mio padre lavorava in Questura, tutto scorreva, senza sollevare domande. Con il passare degli anni mi sono chiesto come sia possibile non avvertire, in quel contesto, l’esigenza di coltivare uno spirito critico, di leggere con lucidità i segni della follia. Come è accaduto? Ancora oggi quando seguo una trasmissione sulla guerra in Ucraina, voglio che accanto a me ci sia qualcuno che condivida quello che ascolto, per essere certo di potermi confrontare, di non lasciarmi attraversare dalle parole, per restare lucido, indipendente nelle mie valutazioni».

Quando ha scoperto la sua passione per il palcoscenico?

«A 13 anni, frequentavo la terza media, in collegio misero in scena una farsa, un atto unico. Dentro il testo c’era una parte molto seria e io la interpretai: un avvocato, distinto e serioso. Peccato che dal momento in cui pronunciai le prime parole, tutti iniziarono a ridere. In quell’istante capii: potevo essere altro da me. Non perché io non mi piacessi, ma perché c’era in me quella ritrosia, forse timidezza, che alcune volte mi impediva di donarmi, umanamente parlando, mi tratteneva. Invece là sopra, compresi, potevo dare vita a una infinita serie di uomini, mai scontati, mai prevedibili, mai troppo codificabili». (...)

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