Una ragazza che ha fatto strada

La missione di Giulia da Albino sconfiggere la "danza" dei neuroni

La missione di Giulia da Albino sconfiggere la "danza" dei neuroni
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Giulia Birolini ha 26 anni ed è una ricercatrice. Studia la Corea di Huntington, una rara malattia neurodegenerativa. Una professione che è anche una missione. Racconta il percorso che l’ha portata fin qui.

Come nasce l’idea di diventare ricercatrice?

«Dopo le scuole medie volevo diventare una professoressa di matematica, per cui mi sono iscritta al liceo scientifico Amaldi, ad Alzano Lombardo. Al quarto anno ci hanno proposto di partecipare a un corso pomeridiano di fotografia al microscopio. Ricordo che eravamo in pochi e quindi ognuno di noi aveva la possibilità di raccogliere dei campioni di acqua e di vegetazione lungo le sponde del fiume Serio per poi osservarli e fotografarli al microscopio. È stato in quel laboratorio che ho capito di voler diventare ricercatrice: poter osservare da vicino strutture e organismi così piccoli mi incuriosiva tantissimo. Ho cercato i corsi universitari che offrissero come sbocchi professionali quelli legati alla ricerca e mi sono iscritta al corso di laurea triennale in Biotecnologie industriali ed ambientali all’Università di Milano. Nei primi tre anni mi sono appassionata sempre di più alla biologia applicata alla ricerca biomedica».

E poi?

«Dopo la laurea triennale ho capito che volevo approfondire le mie conoscenze nel campo delle neuroscienze e quindi mi sono iscritta alla laurea magistrale in Biologia molecolare e bioinformatica a Milano. Durante il primo anno di magistrale ho partecipato al progetto Erasmus. Sono andata a studiare in Olanda all’università di Leiden: questa esperienza mi ha permesso di frequentare corsi molto specifici e di imparare ancora meglio la lingua inglese. Una volta tornata in Italia, era giunta l’ora di affrontare la prima vera esperienza in un laboratorio di ricerca. Mi trovavo davanti a una scelta molto importante: dovevo selezionare un laboratorio in cui svolgere i 15 mesi di tirocinio per preparare la mia tesi. Dopo averne presi in considerazione diversi, sono andata a conoscere la professoressa Elena Cattaneo. Avevo sentito parlare di lei e delle sue ricerche quando era stata nominata senatrice a vita dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. A settembre 2015 ho quindi incominciato a muovere i miei primi passi in un vero laboratorio di ricerca».

Ci parli del suo lavoro.

«Opero nel laboratorio della prof.ssa Cattaneo dove si studia la Corea di Huntington, una malattia neurodegenerativa a oggi incurabile. È una malattia ereditaria autosomica dominante: questo significa che se uno dei due genitori ha la malattia, la probabilità di trasmetterla a ogni figlio è del 50 per cento. Tutti noi abbiamo il gene che nella forma mutata provoca la malattia. Si tratta di un gene caratterizzato da ripetizioni in successione di gruppi di tre lettere del Dna, C-A-G, variabili tra le 9 e le 35 nelle persone sane. Quando il numero di queste ripetizioni supera la soglia di 36, insorge la malattia. Più ripetizioni di C-A-G sono presenti nel gene, più i sintomi della malattia sono gravi e precoci. La corea di Huntington è una malattia invalidante caratterizzata dalla morte dei neuroni dello striato, una regione del cervello. La malattia si manifesta con difficoltà motorie, da cui il nome Corea, che in greco significa danza, declino cognitivo e disturbi psichiatrici. Si stima che in Italia siano circa seimila le persone ammalate, e 18 mila quelle a rischio di ereditare la malattia. Uno degli obiettivi del laboratorio è anche quello di combattere la diffidenza, la paura e lo stigma che porta i malati a essere isolati ai margini della società».

Come lavorate?

«Il laboratorio è composto da circa trenta persone provenienti da diversi Stati. Tre sono i filoni fondamentali: lo sviluppo di protocolli per differenziare cellule staminali e farle diventare neuroni (che muoiono nei malati di Huntington); lo studio del gene sano e delle funzioni che svolge nel cervello; lo studio dei meccanismi che sono alterati nel cervello dei malati».

 

 

Qual era il suo ambito all'inizio?

«Durante il tirocinio ho iniziato, insieme ad altre persone, a lavorare sui meccanismi che sono alterati nel cervello dei pazienti. In particolare, una ricerca del laboratorio pubblicata alcuni anni fa ha dimostrato che il cervello dei malati di Huntington non è in grado di produrre tutto il colesterolo necessario per il corretto funzionamento dei neuroni e per la memoria. Il colesterolo che ogni giorno viene assunto con il cibo non può raggiungere il cervello, in quanto circondato da una barriera chiamata barriera emato-encefalica che lo protegge da attacchi che potrebbero risultare fatali. Per questo motivo, non è nemmeno pensabile somministrare ai malati delle pastiglie di colesterolo, in quanto queste verrebbero bloccate dalla barriera. Abbiamo quindi provato a pensare a delle strategie che ci permettessero di somministrare colesterolo direttamente nel cervello dei pazienti. Utilizzando delle nanoparticelle riempite di colesterolo, siamo riusciti a somministrare colesterolo al cervello di topolini con la malattia e, svolgendo test comportamentali di tipo cognitivo e motorio, abbiamo visto che il colesterolo somministrato era in grado di migliorare i loro difetti».

E dopo il tirocinio?

«Una volta laureata ho deciso di continuare a studiare questa malattia. Ho partecipato a un concorso per ottenere un contratto di dottorato di ricerca all’Università di Milano scrivendo un progetto proprio sulla malattia di Huntington. Vinto il concorso, mi sono iscritta al dottorato in Molecular and Cellular Biology per poter continuare le mie ricerche nel laboratorio della prof.ssa Cattaneo. L’obiettivo ora è quello di trovare il metodo meno invasivo per somministrare colesterolo al cervello dell’uomo».

Ritiene che in Italia la vostra professione sia adeguatamente riconosciuta e sostenuta?

«Purtroppo questo è un tasto dolente per il nostro Paese. Basti pensare che l’investimento italiano nell’ambito della ricerca è ben al di sotto della media europea: l’1,29 per cento del Pil nel 2016 contro il 2,03 degli standard europei, un quarto rispetto ai fondi investiti in Germania per esempio. Inoltre, studiando una malattia rara, non sono molti gli enti disposti a finanziare ricerche che non avrebbero un grande ritorno economico. Il mio progetto è finanziato da Telethon, una fondazione che dà priorità alle malattie rare e che finanzia le ricerche volte alla comprensione dei meccanismi che sono alterati nelle malattie genetiche e allo sviluppo di nuovi farmaci per curarle. Vincere un finanziamento però non è facile: è necessario scrivere un progetto in cui vengono descritti tutti i dettagli della ricerca che si vuole svolgere, spiegata anche sulla base di dati solidi precedentemente ottenuti dal laboratorio. Il progetto poi viene valutato da esperti nel campo che, con criteri rigorosi e competitivi, selezionano i progetti più promettenti».

Un momento importante legato alla sua professione?

«Anche se a volte può sembrare che i ricercatori siano tutto il giorno rinchiusi nel loro laboratorio davanti a banconi e provette, la nostra professione ci lega in maniera forte alla malattia che studiamo e ai pazienti che vengono colpiti insieme alle loro famiglie. Due anni fa Papa Francesco ha accolto in Vaticano i pazienti malati di Huntington con le loro famiglie, i ricercatori che studiano questa malattia e i maggiori esponenti religiosi e politici di 23 Paesi per far conoscere a tutti la malattia di Huntington. Per i malati e le loro famiglie, l’incontro con Papa Francesco è stato uno dei regali più grandi che potessero ricevere: per la prima volta si sono sentiti accettati per quello che sono. Per noi ricercatori è stato un momento di immensa gratitudine verso tutte quelle persone che credono e sperano nel nostro lavoro. Questo incontro ha fatto aumentare ancora di più la mia determinazione e mi ha fatto capire che, anche se la strada è lunga e non priva di insidie, vale davvero la pena percorrerla fino alla fine».

Un sogno?

«Ovviamente mi piacerebbe tantissimo trovare una soluzione a questa malattia. O almeno trovare un modo per migliorare la vita di queste persone».

Ha pubblicato studi su riviste scientifiche?

«Non ancora, ma spero di riuscire a pubblicarne entro l’estate. Abbiamo dei risultati molto promettenti e stiamo scrivendo l’articolo proprio in questi mesi. Come dicevo, la ricerca richiedere un lavoro molto lungo e per poter pubblicare dei dati veri e solidi è necessario ripeterli e confermarli più volte. Uno studio scientifico a volte racchiude il lavoro di 5-6 anni».

Quali sono le sue prospettive?

«Ora sono concentrata per far fruttare al meglio gli studi del mio dottorato di ricerca. A settembre 2020 dovrò discutere una tesi con il lavoro fatto in questi anni. Una volta dottorata, spero di trovare il modo di poter continuare a far ricerca in Italia. Penso davvero che la ricerca possa migliorare il futuro di tantissime persone e mi piacerebbe continuare a contribuire, magari con un mio laboratorio».

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