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La polizia mi ha fatto l’alcoltest Un tranquillo limoncello di paura

La polizia mi ha fatto l’alcoltest Un tranquillo limoncello di paura
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Tramonto di Romagna dopo tre giorni col naso all’insù per contemplare gli aquiloni di Cervia. Naso rosso, perché se non è vero che noi «che stiamo in fondo alla campagna abbiamo il sole in piazza rare volte e il resto è pioggia che ci bagna», come il Paolo Conte di Genova per noi, in genere lo prendiamo comunque poco, il sole. Le statali corrono tra i canali e i prati lisciati dal vento. Punti di casolari e linee di pini marittimi guidano l’occhio all’orizzonte. Prima di tornare a Bergamo, la sera del ponte del 25 aprile, un’ultima fritturina con bianco mosso del posto in un ristorante sull’Adriatica. La scusa? Dar da mangiare al bambino (Diego ha quasi due anni) in tutta tranquillità. Così si addormenta e i trecento chilometri da qui a mezzanotte galoppano più docili. La verità? Ci si attacca all’ultimo scampolo di vacanza: «ancora cinque minuti». Come un bambino che all’ordine di lasciare il parco giochi si aggrappa alla scaletta dello scivolo. Anche il limoncello dopo il caffè è un tempo supplementare sulla via della felicità prolungata.

Galeotto fu l’ammazzacaffè. Ecco, il limoncello. Che, sommato al bianchetto frizzante, può diventare grande fonte di ansia. Se la polizia ti ferma poco fuori dal ristorante, tipo. Un posto di blocco classico. Appena lo scorgi, ammicchi da centinaia di metri all’agente con fare rassicurante: siamo una famigliola di ritorno a casa, non dei neopatentati da discoteca. Non fermateci. Ai primi sentori di sollevamento della paletta il mio ammiccamento si fa più grido di dolore. Chiara ha già il sequestro del mezzo negli occhi. Diego, dietro, è crollato: sognerà i gonfiabili della riviera appena salutati. Un cartello indica «Lido di Classe»: quella pineta la cita Dante sulla cima della Purgatorio, e Boccaccio ci ambienta la novella di Nastagio degli Onesti nel Decamerone. Cerco la salvezza nella cultura. Sono già in carcere.

 

 

«Patente e libretto». Un momento topico, nei telefilm americani. Mi immagino una derapata con fuga tra gli spari e camion pieni di squacquerone ribaltati sulle macchine della polizia. Con mano incerta e profilo tanto basso da poter sbancare un contest di limbo, invece, tolgo la patente dal portafoglio. Chiara mi passa in fretta il libretto dal vano portaoggetti. L’agente ha il ventre tondo della buona forchetta e un accento da piadinaro accomodante. Il suo collega, trincerato dietro l’auto della Stradale, sembra meno espansivo. Il buongustaio mi fa soffiare in un tubo di plastica che somiglia a una torcia. Una sorta di prima scrematura, un alcol detector. Poi mi domanda: «Ha bevuto?». Non so bluffare. Però una credibile faccetta da autocommiserazione la allestisco con discreta naturalezza. Confesso. Ometto quella sciocchezzuola bevuta per l’aperitivo: risale a ormai più di tre ore fa. Non voglio rovinare il bel clima paternalistico creato. Ma non basta. «Può scendere dall’auto?». Non penso sia per fare delle prove di equilibrio su un piede solo. Peccato, le supererei brillantemente.

Tutto quello che dice… Avete presente la formula con cui la polizia americana ammanetta i sospettati? Quella che finisce con «ha diritto a un avvocato durante l'interrogatorio. Se non può permettersi un avvocato, gliene sarà assegnato uno d'ufficio». Ecco, prima di procedere all’alcoltest vero e proprio, il piadinaro mi fa presente che «essendo un accertamento unico e irripetibile, ha il diritto di essere assistito da un legale». Però dovrebbe arrivare sul posto nel giro di pochi minuti, almeno a quanto ho capito nella confusione di immagini che mi fanno zapping nella mente. Non avendo Perry Mason in zona, decido di rinunciare al mio diritto. Soffio con moderazione, cercando di decomprimere il mio fiato dagli effluvi alcolici. Il controllo zen della respirazione non me lo sono mai filato e me ne pento.

 

 

Suspense da quiz tivù. Quando la musica avvolge nel mistero il momento di sapere se la riposta data dal concorrente è esatta o meno, in tivù, la tensione sale. È lui o non è lui l’alcolista del momento? La parola «prigione» è quella giusta? Nel tuo pacco ci sono 50 bottiglie di Champagne? Lo scontrino sputato lentamente dalla macchina dell’alcoltest è la mia clessidra. Cuore in gola. Poi la risposta: 0,27 grammi per litro di sangue. Sopra lo 0,50 sarebbe scattata la sanzione amministrativa. Sopra lo 0,80 si va nel penale. Io mi sentivo perfettamente in grado di guidare, sia chiaro. Ma non avendo esperienze pregresse di controlli alcolemici, dubitavo. I poliziotti mi consigliano, comunque, di evitare di bere la prossima volta che devo mettermi alla guida per effettuare un viaggio lungo. O almeno di tralasciare il limoncello. Mi consigliano anche di bere subito molta acqua. Probabilmente hanno ragione loro. I miei neuroni, però, cantano in coro «sono salvo». Con il miglior sorriso a disposizione e un augurio sentito di buon lavoro mi congedo dalla polizia. Bisogna festeggiare. Imbocco l’autostrada a Ravenna e stappo una bottiglia. Di acqua gasata, però. Chiara sospira, Diego sorride nel sonno. Si torna a casa.

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