La storia di Lino e Mariuccia, che hanno donato a Nembro la "Baracca del minatore"
Inaugurata il 7 agosto, è parte del locale museo ed è stata realizzata dalla coppia. La loro storia e il loro sogno per il futuro

di Clara Scarpellini
Il 7 agosto, a Nembro, non è stata solo la giornata della tradizionale Festa dell’Emigrante, ma anche il momento dell’attesissima inaugurazione della “Baracca del Minatore”: una fedele ricostruzione di quegli alloggi spartani che furono casa, o meglio rifugio, per migliaia di italiani emigrati nelle miniere belghe nel dopoguerra.

Una giornata speciale, che ha visto riunirsi autorità, cittadini, amici del Belgio e discendenti dei minatori alla vigilia del sessantanovesimo anniversario della tragedia di Marcinelle: l’8 agosto 1956, un incendio nella miniera di carbone Bois du Cazier a Marcinelle, Belgio, causò la morte di 262 minatori, di cui 136 italiani.
Al centro di questa storia ci sono Lino Rota, 96 anni, soccorritore nel disastro della miniera, e Mariuccia Abondio, 82 anni, sua moglie e compagna di vita nel progetto del Museo della Miniera e dell’Emigrazione. Qualche giorno dopo l’inaugurazione, abbiamo raggiunto i coniugi nella loro casa di Nembro per una chiacchierata. Ci hanno accolto con un caffè, anche se Lino, già seduto al tavolo, mette subito le cose in chiaro con un sorriso: «Per me niente caffè, per carità! In miniera ne ho bevuto abbastanza per due vite, e non era nemmeno caffè vero: era cicoria. Lo preparavamo la mattina, lo versavamo in una borraccia di due litri e ce lo portavamo giù. Alla fine della giornata pesava più di me».
La “Baracca del Minatore”: perché era importante ricostruirla?
«Volevamo raccontare la vita fuori dalla miniera. Baracche fredde d’inverno, soffocanti d’estate, con letti militari, una stufa, poche cose personali. Nella nostra ricostruzione manca solo un letto originale, e lanciamo un appello: se qualcuno ne ha uno della guerra, ci piacerebbe inserirlo», racconta Mariuccia.
«In quelle baracche si stava anche in quaranta, e i primi stipendi se ne andavano per pagarne l’affitto. Lo stipendio era buono, dicevano. Peccato che ci trattenessero tutto», aggiunge il marito.
Torniamo all’inizio: come nasce il museo?
«Tutto è cominciato con un piccolo tavolino. Lino, tornando a Nembro dal Belgio, lungo la strada per il santuario dello Zuccarello metteva in mostra una lampada da minatore e qualche altro oggetto, semplicemente per condividere le sue storie con chi si fermava ad ascoltare. All’inizio gli dicevo di non farlo senza permessi, ma poi, grazie a un sindaco di Nembro che all’epoca si trovava a Bruxelles, riuscimmo a ottenere l’autorizzazione. Fu così che nacque il museo - racconta la moglie del minatore -. Abbiamo scelto come sede una cava abbandonata, che prima era usata come discarica. L’abbiamo pulita e trasformata in una miniera vera e propria. Per le pareti abbiamo inizialmente messo dei supporti di legno, proprio come quelli delle miniere originali: il legno era un grande amico dei minatori, perché con i suoi scricchiolii li avvertiva dei movimenti della roccia. Poi, per sicurezza, abbiamo aggiunto anche supporti di ferro. Oggi lasciamo entrambi, così i visitatori possono capire la differenza».

L'interno della Baracca

I coniugi Lino e Mariuccia con il sindaco di Nembro, Gianfranco Ravasio, e una discendente belga di un minatore morto a Marcinelle

Un giovanissimo Lino in Belgio

Il volantino che veniva distribuito in Italia per convincere i giovani a diventare minatori in Belgio
Lino, ci racconta la sua vita prima del Belgio?
«Sono nato in Italia nel 1929 per puro caso: mia madre era tornata in Valle Imagna dalla Francia per trovare la mamma malata e mi partorì qui. Dopo poco tornammo in Francia, dove mio padre lavorava come boscaiolo. Ci restammo fino al 1945, quando ci costrinsero a scegliere: naturalizzarsi francesi o tornare in Italia. Tornammo. Io lavorai un paio d’anni per una ditta che faceva tunnel e fortificazioni, poi arrivò quel famoso “foglio rosa”».
Cioè?
«Un volantino, stampato su carta rosa, che il Belgio distribuiva in Italia. Prometteva buon salario, viaggio pagato, alloggio incluso. Nel dopoguerra, con la fame che c’era, sembrava un’occasione d’oro. Ma era una mezza trappola: il viaggio te lo pagavano solo all’andata; poi, una volta arrivato, ti portavano in camionette militari direttamente in miniera, senza spiegazioni. L’alloggio? Una baracca. E dalla paga ti trattenevano non solo l’affitto, ma anche i vestiti da lavoro e persino le scarpe. Prima di partire, nessuno sapeva davvero cosa significasse lavorare in miniera. Il foglio rosa dava solo speranza, ma a quei tempi era più che sufficiente».
Com’è stato l’arrivo in Belgio?
«Era l’estate del 1948. Facevano una selezione severa: tre giorni di controlli medici a Milano. Solo giovani forti e sani. Una volta in Belgio, io avevo il vantaggio di sapere il francese. Questo mi permise di fare pochi anni da semplice minatore e diventare capo squadra. Camminavo chilometri al giorno nei tunnel, sempre vigile. Poi mi fecero fare il corso da soccorritore in francese, e così, nel 1956, fui tra i primi ad arrivare al disastro».
Mariuccia, lei in Belgio come ci è arrivata?
«Io sono la sua seconda moglie. Quando ho conosciuto Lino, lui aveva già vissuto tutta la sua vita in Belgio: anni di lavoro in miniera, un matrimonio finito a causa della morte della moglie e una carriera importante come capo squadra e soccorritore. Io quella fatica non l’ho vissuta accanto a lui, ma l’ho assorbita nei suoi racconti. Ho passato anch’io tre o quattro anni in Belgio, anche se tornavo spesso in Val Seriana per seguire la mia famiglia, che qui si stava allargando. Lino l’ho incontrato in Italia, nel 1988, grazie ad amici. Poco dopo l’ho raggiunto in Belgio e lì ho conosciuto persone splendide, accoglienti, con cui siamo ancora in contatto. Alcuni di loro erano belgi che avevano lavorato in miniera fianco a fianco con gli italiani, condividendo la stessa sorte. Quelle sono amicizie che durano una vita. Ci siamo sposati nel 1997 e il legame con il Belgio non si è mai spezzato: alcune di quelle persone erano presenti anche il 7 agosto all’inaugurazione e ci hanno portato in dono una stufa originale per arredare la Baracca del Minatore».
Il sogno di entrambi per il museo?
«Che sopravviva a noi. Lo abbiamo donato al Comune per questo».