La straordinaria giovane fotografa uccisa nell'attentato in Burkina Faso
Foto in copertina di Leila Alaoui, progetto ATREEN (We are waiting).
Aveva una luminosità liquida nello sguardo, Leila Alaoui. Come l’acqua, come la luce, la fotografa sapeva che le barriere c’erano solo per essere attraversate. Era nata a Parigi nel 1982, aveva studiato fotografia a New York e poi aveva scelto di vivere tra Marrakech e Beirut. Aveva origini marocchine e questo l’aiutava ad aprire passaggi ad altri preclusi. «Sono cresciuta in Marocco e là mi consideravano sempre “la francese”, in Francia invece ero vista come una marocchina, alla fine è stato negli Stati Uniti che ho cominciato ad apprezzare la mia doppia nazionalità. Ma io mi sento solo mediterranea», diceva.
L’ultimo lavoro di Leila. Il suo ultimo lavoro era stato commissionato da Amnesty International. Leila stava fotografando le donne dell’Africa occidentale, per una serie intitolata My body my rights [Il mio corpo i miei diritti], contro la violenza e la discriminazione. Il 15 gennaio era a Ouagadougou, in Burkina Faso. Lei e il suo autista, Mahamadi Ouédraogo, si trovavano nel parcheggio antistante il bar Cappuccino, quando è cominciato l’assalto dei miliziani di al Qaeda. Mahamadi è morto in auto, mentre Leila è stata portata in ospedale, gravemente ferita. Sembrava che le sue condizioni si fossero stabilizzate, ma poi è intervenuto un arresto cardiaco ed è morta il 18 gennaio.
Quello che Leila amava. L’identità individuale interessava a Alaoui solo nella misura in cui poteva essere contaminata con l’altro, confrontata e perciò esaltata. Le interessava il movimento e il Mediterraneo come luogo d’intersezioni. Raccoglieva e documentava le storie dei migranti e dei profughi, non perché sia argomento alla moda, ma perché vi trovava lo scandalo dell’umanità messa a nudo. I suoi ritratti parlano un linguaggio visivo che combina la profondità narrativa della narrazione documentaristica e l’estetica dell’arte pittorica. Eppure i suoi modelli non si mettevano mai in posa. Descrivendo il suo approccio alla serie The Moroccans, spiegava: «Allestivo il mio studio all’aperto, durante i giorni di mercato. La gente passava e quelli che volevano si fermavano per farsi fare una foto. L’unica cosa che chiedevo loro era di guardarmi». Cercava il contatto umano, voleva che si vedesse chiaramente nei suoi scatti.
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«Aveva una luce interiore». Yves Boukari Traoré, il direttore di Amnesty in Burkina Faso, ha dichiarato: «Leila era una straordinaria giovane donna. Volevamo lavorare con lei a causa del suo talento, della passione che metteva nell’aiutare le donne, le ragazze e le persone ai margini, affinché potessero raccontare le loro storie». Lo sguardo di Leila raccoglieva e rifletteva, senza analizzare, senza parcellizzare la vita umana in una serie di definizioni senza poesia. Le sue foto univano, in sintesi, gli anni di un’esistenza su un volto, giovane o scavato dalle rughe. «C’era una luce interiore che illuminava sia lei che il suo lavoro», ha commentato Jean-Luc Monterosso, il direttore della Maison Européenne de la Photographie di Parigi. La stessa luce interna che sapeva togliere i veli del pregiudizio, secondo lo scrittore Tahar Ben Jelloun: «Sapeva svelare la realtà dietro l’apparenza e mostrare lo splendore di un corpo dietro il velo dei pregiudizi. Aveva un sorriso magnifico, luminoso, generoso».
Marocco, Libano, Francia. Pur essendo così giovane, Leila Alaoui aveva al suo attivo esposizioni in tutto il mondo, all’Institut du Monde Arabe, all’Art Dubai e alla Maison Européenne de la Photographie in Paris, e le sue opere erano state pubblicate su quotidiani e riviste importanti come il New York Times and Vogue. Nel 2008, anno del suo ritorno in Marocco, aveva ottenuto un finanziamento per un progetto sui migranti, No pasara, grazie al quale aveva documentato le vite dei giovani marocchini chiamati Harragas, “coloro che bruciano” nel disperato desiderio di sacrificare qualunque cosa per raggiungere l’Europa. Si era poi occupata di Crossing, una video installazione della durata di sei minuti che incorpora frammenti di realtà, immagini e suoni derivati dalle storie dei migranti.
Nel 2013, a Beirut, aveva realizzato Atreen (Stiamo aspettando, in arabo) per gli sfollati della guerra civile. Due anni dopo era stata la volta di L’Île du Diable, un video che presenta le testimonianze dei lavoratori dell’ex fabbrica Renault Billancourt, situata sull’isola Seguin, soprannominata “isola del diavolo” per le durissime condizioni di vita. Sempre nel 2015, poi, è stata esposta alla biennale della fotografia araba la collezione di ritratti Les Marrocains, realizzata nella regione rurale del paese e ispirata a The Americans, una serie del fotografo Robert Frank che racconta gli Stati Uniti del secondo dopoguerra. Le fotografie di Alaoui sono a grandezza naturale per «mettere in risalto la fierezza e la dignità» delle persone. L’occhio che ha scattato le immagini non è stato obiettivo: «La serie adotta la soggettività della mia posizione, in qualità sia di nativa marocchina, sia di estranea che documenta criticamente». Una prospettiva doppia, sempre. Perché, come ha detto un’altra donna, scrittrice, fornire una sola versione di una storia mette in pericolo la verità.