Rappresentato al Meeting

"L'annuncio a Maria" di Claudel Dove sta l'eterna giovinezza

"L'annuncio a Maria" di Claudel Dove sta l'eterna giovinezza
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Al Meeting di Rimini hanno rappresentato L’Annuncio a Maria di Paul Claudel, testo giussaniano al pari del Miguel Mañara di Miłosz. Una scelta per il decentramento, secondo le intenzioni di papa Francesco. Si tratta di una nuova versione teatrale curata da Fabrizio Sinisi, cui auguriamo ogni bene perché è bravo.

Che cos’è L’Annuncio a Maria. Un testo dei cattolici. Dei cattolici francesi, per dir meglio. Dei cattolici francesi a cavallo fra Otto e Novecento. La prima volta fu rappresentato a Parigi nel 1912. Ma la scrittura - compresa un’altra stesura - risale a qualche anno prima. In Italia potemmo vederlo nel 1931.

È un testo che non ha alcun rispetto per lo spettatore, che brutalizza senza pietà. Basti pensare che il padre della protagonista si chiama Anna. Con tutti i nomi che aveva a disposizione, proprio quello doveva andare a prendere il nostro amato Claudel: come se Goethe avesse chiamato Margherita il dottor Faust, giusto per confondere un po’ le idee. È una scelta precisa, quella di Claudel: vuole che chi legge o chi guarda - a teatro - capisca che non si sta scherzando. Che la testa bisogna mettercela tutta. Che non si potrà dire, uscendo: «Ma quant’è carina questa pièce!». Non c’è niente di carino nell’Annuncio a Maria. Solo cose serie: gente che si ammazza, che si becca l’Aids, che lascia la moglie malata per prendersi la sorella che la odia. Medioevo. Secoli bui. Gente che se ne va in pellegrinaggio senza sapere se tornerà o meno.

 

 

La storia, dura e santa. La storia è presto detta: Violaine (anche qui: ce n’erano tanti altri di nomi meno astrusi. Violette, per esempio, come Violette Valéry della Traviata. Ma no: facciamoci del male), Violaine dunque è fidanzata con Jacques. Ma un giorno incontra il costruttore di cattedrali Pierre de Craon (Pierre: Pietro. Per uno che ha a che fare con le pietre è una follia. Come sarebbe chiamare Camilla la Signora delle Camelie) che le chiede di baciarlo: l’ha sempre amata, l’ha anche violentata, e per questo - dicono - s’è preso la lebbra. Violaine acconsente, in uno slancio di carità cristiana (eccessivo, secondo noi).

Purtroppo per lei la vede sua sorella Mara, a sua volta innamorata di Jacques e dunque gelosissima. Mentre Mara sta facendo di tutto per trarre il maggior vantaggio possibile da quel che ha visto, Anna (il padre) decide - con un’ottima scelta di tempo - di andare in pellegrinaggio in Terra Santa. I suoi beni e la mano della figlia buona andranno a Jacques.

 

https://youtu.be/65F4kfFw9i8

 

Ma il bacio di Pierre è stato fatale a Violaine, che risulta positiva all’HIV, cioè alla lebbra. Jacques la prende, la mette in un lebbrosario, e si sposa la sorella. La ripudiata, che non ama la nuova vita, preferisce far l’eremita nei boschi. Ma la figlia di Jacques e Mara, Albina, muore e allora la mamma,  la notte di Natale, va a cercare la sorella - che continua a odiare, ma che crede santa - per ottenere il miracolo. L’eremita, lebbrosa e cieca (e presumibilmente infreddolita), prega allora Iddio di resuscitare la nipotina e le sue preghiere sono esaudite. Perfino in maniera esagerata, si direbbe, perché vedendo che l’Albina resuscitata non ha più gli occhi neri come i suoi, ma azzurri come quelli della zia, Mara uccide Violaine, che prima di emettere l’ultimo respiro, chiede il perdono per tutti: padre, marito e sorella assassina.

Morta Violaine, Pierre de Craon ha una remissione del male e Mara trova la pace mentre suonano le campane dell’Angelus. Chi segue il papa la domenica sa che questa preghiera inizia con le parole: «L’angelo del Signore portò l’annuncio a Maria». Da qui il titolo del dramma, la cui protagonista Violaine assume progressivamente i contorni della Vergine Maria. Come la giovane di Nazareth ha detto sì all’angelo, Violaine ha detto sì alla vita che l’ha interpellata tanto duramente. Se proprio non si vuol dire che l’ha presa a sberle.

 

 

Il senso e il valore. Claudel ha lasciato detto che la fanciulla rappresenta «un’anima presa, posseduta, dal soprannaturale». Ed è una fortuna che l’abbia detto Claudel e non l’autorità della Chiesa, altrimenti si trovavano due o tre in tutto a cantare le lodi del Signore (come del resto si son trovati per tanto tempo: ricordiamoci l’ironia del papa sui cristiani che lasciano fuggire le novantanove pecore per restare fra loro a pettinarne una).

Perché questo dramma tardo romantico, che presenta aspetti per lo meno fantasiosi, da ex voto popolari; perché questa struttura narrativa, per certi versi neo-gotica, è stata e continua ad essere una bandiera dei cattolici in genere e di quelli impegnati in teatro in maniera particolare? Perché presenta momenti di grande lirismo, consente di sentirsi di fronte a qualcosa di molto serio e impegnato - a un pensiero “alto”, come si dice; a sentimenti estremi - e ha due o tre formule particolarmente efficaci nel rappresentare alcuni aspetti importanti della vita cristiana, quali l’accettazione del sacrificio richiesto a chi voglia seguire Dio, la disponibilità vissuta fino al paradosso ad obbedire alla sua chiamata. Il tutto in un linguaggio particolarmente “lirico” come si è detto. Forse un po’ sopra le righe, direbbero altri.

Violaine a Pietro mangiato dalla lebbra: «Siate uomo, Pietro. Siate degno della fiamma che vi consuma. E se bisogna essere divorati, sia ciò su un candelabro d’oro, come il Cero Pasquale in mezzo al coro, per la Gloria di tutta la Chiesa».

Ancora: Pietro di Craon a Violaine: «Santità non è farsi lapidare in terra di Paganìa o baciare in bocca un lebbroso, ma fare la volontà di Dio, con prontezza, si tratti di restare al nostro posto, o di salire più alto».

E infine, le parole di Anna (il padre) Vercors tornato dalla Terra Santa per la figlia che sta lasciando - che ha già lasciato - questo mondo: «La mia piccola Violaine è stata più saggia. Forse che il fine della vita è vivere? Forse che i figli di Dio resteranno con fermi piedi su questa miserabile terra? Non vivere, ma morire, e non digrossar la croce ma salirvi, e dare in letizia ciò che abbiamo. Qui sta la gioia, la libertà, la grazia, la giovinezza eterna! [...] Che vale il mondo rispetto alla vita? E che vale la vita se non per essere data? E perché tormentarsi quando è così semplice obbedire? Così Violaine, tutta pronta, segue la mano che prende la sua».

«Non c’è una parola che non corrisponda a un’altra dopo, - ha scritto don Giussani nell’introduzione al volume presso Rizzoli - è bellezza senza fine […]. Queste pagine contengono l’ideale di tutto». Sì. Non è però il solo libro in cui le parole si legano tra loro bene - o anche molto bene.
Che le sue pagine contengano «l’ideale di tutto» è forse altrettanto vero, ma forse anche un tantino esagerato. Che lo esprimano in un linguaggio adatto a noi - poveri lebbrosi che scuotiamo la campanellina al lato della strada -, che lo dicano in una forma che ci prende e ci attira, non ci giureremmo. Gusti.

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