Medaglia d'onore nella Giornata della Memoria

L'Odissea a lieto fine di Giovanni Morgandi, in fuga a piedi dal lager fino a Gavazzo

È uno dei 144 bergamaschi deportati e internati ai quali è stato conferito il riconoscimento. Catturato dopo l'8 settembre, quando tornò pesava 48 chili. Ebbe dieci figli e tutte le sere recitava il rosario in ginocchio

L'Odissea a lieto fine di Giovanni Morgandi, in fuga a piedi dal lager fino a Gavazzo
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di Heidi Busetti

Mentre tornava a casa a piedi dalla Germania, sfinito dalla violenza inaudita della Seconda Guerra Mondiale, teneva in mano un rosario. Camminavano in quattro, accompagnati dalla fame e dalla sofferenza. Giovanni Morgandi, classe 1916, era un uomo umile, con un unico desiderio nel cuore: tornare a Gavazzo, frazione di Valbondione, dalla moglie e dai figli.

In occasione della Giornata della Memoria, mercoledì 27 gennaio, nell’Auditorium “Ermanno Olmi” di Bergamo, il prefetto Enrico Ricci ha consegnato al figlio Arturo, in rappresentanza della famiglia Morgandi, la Medaglia d’onore che lo Stato Italiano dedica ai deportati e internati nei lager nazisti. Quest’anno i bergamaschi ai quali è stato conferito questo riconoscimento sono 144. Ad Arturo Morgandi, penultimo figlio di Giovanni e Susanna Bonetti, abbiamo chiesto di raccontare la storia di suo padre.

Cosa significa per la famiglia Morgandi questo riconoscimento?

«È un po’ il coronamento della ricerca e della documentazione raccolta nel corso degli anni su nostro padre, un uomo che ha vissuto moltissimo con noi ma ci ha raccontato ben poco della sua prigionia. Probabilmente preferiva il silenzio: spesso chi aveva vissuto la guerra non raccontava volentieri i fatti, quello che aveva visto e vissuto, forse per rimuovere le atrocità che anche ad anni di distanza suscitavano dolore e sgomento. Pian piano, anche grazie all’aiuto di amici che hanno fatto ricerche in archivi storici, siamo però riusciti a ricostruire la sua vita militare nei cinque anni di guerra».

Partiamo dall’inizio.

«Mio padre Giovanni il 6 aprile 1940 sposò mia mamma e due settimane più tardi fu richiamato alle armi. Aveva 24 anni, tre anni prima aveva già espletato il servizio di leva. Il 20 dicembre del ’40 dovette partire per il fronte: destinazione Albania, dove nel 1942 venne ricoverato in ospedale per un paio di mesi. Fu allora che mia madre lo raggiunse, per stargli vicino». E come fece sua madre ad arrivare in Albania ai tempi della guerra?
«Salì su un treno diretto a Bari e poi si imbarcò su una nave. Era una donna molto intraprendente, capace di prendere in mano le redini in ogni situazione!».

Poi Giovanni fu fatto prigioniero dai tedeschi...

«Era l’8 ottobre del 1943, il periodo dei rastrellamenti. Mio padre fu tra coloro che si rifiutarono di combattere a fianco del regime nazista, così venne fatto prigioniero e inviato al campo di concentramento di Limburg, nel Lager 12A. Qui visse di stenti, come ci si può immaginare. Dopo un anno, per giunta, il regime decise che i prigionieri militari italiani venissero considerati non più soldati, ma civili. Apparentemente poteva sembrare una liberazione, in realtà significava perdere il diritto alla razione quotidiana di cibo riservata ai militari. Se volevano mangiare, dovevano guadagnarsi da vivere lavorando nel lager».

E in tutto questo dolore, chi si salvava?

«Chi aveva appreso un mestiere. Chi riusciva a guadagnarsi qualcosa, spesso divideva il pane con altri, creando una profonda solidarietà».

Che lavoro svolgeva suo padre nel campo di concentramento?

«Si dedicò alla falegnameria. Chiaramente non era facile vendere il proprio lavoro, era sempre un combattimento su tutti i fronti. Ricordo che di quest’esperienza, papà volle portarsi a casa un portafotografie realizzato con fiammiferi incollati...».

Nel 1945 finisce la Seconda Guerra Mondiale. Come fu il ritorno a casa?

«A noi ha raccontato a tratti di questo viaggio doloroso partito poco prima che la guerra finisse, fatto un po’ a piedi e un po’ in treno, con il rischio di essere bombardati dagli Alleati. Ricordo soprattutto un aneddoto, in cui disse di essere arrivato a piedi nel fienile del casolare di una famiglia tedesca. Sfinito, si era addormentato sul pagliericcio con i suoi tre compagni di viaggio. Al mattino sentirono aprirsi la porta: pensarono fosse giunta la loro ora. Invece si presentò la signora tedesca con patate bollite per i fuggitivi. Questo per dire come il cuore dell’uomo non ha a che fare né con la nazionalità, né con la politica. Era un fatto bello, ecco perché credo abbia voluto raccontarcelo. Arrivò a Bergamo che pesava meno di quaranta chili, distribuiti su un uomo alto un metro e settantacinque: in pratica era pelle e ossa e fu necessario un ricovero».

E tornò in Valbondione.

A Gavazzo potè riabbracciare mia mamma e i suoi primi due figli. Fu assunto all’Orobia, azienda che produceva energia elettrica, e acquistò un terreno su cui costruì una casetta, anche grazie all’aiuto di mia madre».

Un matrimonio benedetto dall’arrivo di ben dieci figli!

«Infatti... dal 1946 al 1957 arrivarono otto figli, che si andarono ad aggiungere ai due più grandi. I nomi? Lorenzo, Francesco, Renato, Maria Rita, Bruna, Domenico, Roberto, Maddalena, Arturo e Tiziana. Una sola paga e tante bocche da sfamare! Una bella impresa! Finché nel 1960 ci trasferimmo a Lallio. Crescendo, ognuno di noi ha poi preso la sua strada».

E ora arriva questa onorificenza…

«Sì, che va ad aggiungersi alla Croce al Valore Militare e alla Croce pro Ecclesia et Pontifice, ricevuta da papà pochi giorni prima di morire».

Se dovesse riassumere la figura di suo padre in poche parole, cosa direbbe?

«Che era un uomo umile e molto religioso. Tornò dalla Germania con il rosario tra le mani. E il rosario è stata la preghiera che ci ha accompagnato tutte le sere. Papà lo recitava in ginocchio. La mamma? Era un generale. Lei era la mente, lui le braccia. Ed erano straordinari».

In che senso?

«Un aneddoto su tutti: papà aveva ereditato un pezzo di terra. La mamma, nonostante le difficoltà che stava attraversando la famiglia, lo donò per fare una chiesetta più grande perché quella di Gavazzo era troppo piccola. Così nel 1964, fu inaugurata la chiesa di San Giuseppe. A chi in famiglia chiedeva alla mamma del perché di quella scelta, lei rispondeva: “Voi pensate a lavorare, che al resto ci penserà il Signore”».

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