L'umanità di De Gasperi
Ricorre oggi il sessantesimo anniversario della morte di Alcide De Gasperi, il presidente del Consiglio che si trovò a ricostruire l’Italia dilaniata dalla seconda guerra mondiale. De Gasperi fu un grande statista – padre fondatore dell’Europa - e un esemplare cristiano. Recentemente la figlia Maria Romana ha mostrato ai missionari di San Carlo a Roma una pagina scritta in aula da suo padre - quattro righe su carta intestata - che testimonia quanto profonda fosse la sua fede: «Perdonami, Signore, ma porto con me nelle mie occupazioni la Tua preghiera – penetra tutta la mia attività, prega Tu nel mio lavoro e in tutta la donazione di me stesso», scriveva De Gasperi sessant’anni fa. Nessuno lo conobbe da vicino nel suo impegno pubblico come Giulio Andreotti, suo allievo e successore (più volte) alla guida del governo. Nell’agosto del 2009, sul mensile 30Giorni di cui era direttore, Andreotti delineò un ritratto dell’uomo che fu suo maestro e compagno di partito in un editoriale intitolato “L’umanità del cristiano”. Lo riproponiamo integralmente come «l’esempio più chiaro di una politica intesa con la “P” maiscola».
L’umanità del cristiano, di Giulio Andreotti
La fede e la religiosità di De Gasperi erano trasparenti in tutte le sue azioni, ordinarie e straordinarie. Facevano parte della sua impostazione generale, ed era facile intuirle in ogni sua iniziativa, anche se lui non ostentava mai la propria fede e riteneva molte volte di non dover aggiungere parole o gesti che dimostrassero la sua appartenenza alla Chiesa. Specie quando parlava ai giovani impostava i suoi discorsi sulle encicliche sociali dei papi, ma è guardando a tutte le sue grandi idee riformatrici – dalla terra ai contadini al progresso del meridione, al processo di unificazione europeo – che si può vedere una coerente linea politica che definirei naturaliter christiana.
Ricordo, ad esempio, che al momento della beatificazione di Maria Goretti, rilevò con gioia che la riforma agraria aveva cancellato quel nomadismo bracciantile che aveva dovuto affrontare la famiglia della santa. E, in un certo senso, anche la legge che volle per combattere le pubblicazioni raccapriccianti o atte a turbare la sensibilità degli adolescenti (1947-48) è un segno indicatore della sua preoccupazione di preservare la fede del popolo. Anche il fatto che la politica non lo guastò, e che il potere non lo esaltò tanto da fargli perdere serenità e oggettività, è un segno della sua grandissima fede, dei suoi costumi integerrimi, della sua correttezza straordinaria.
Vi fu un episodio nel quale mi manifestò il suo modo di vivere il cristianesimo. Avvenne il giorno in cui, in piazza San Pietro, il papa Pio XII proclamava il dogma di Maria Assunta. De Gasperi mi disse a bassa voce: «Speriamo che questo non sia di ostacolo nel cammino di dialogo con i protestanti». Poi, forse preoccupato di avermi creato qualche problema, aggiunse: «Guarda però che il mio libro di meditazione è L’imitazione di Cristo e che da ragazzo non andavo mai a letto senza aver recitato prima il rosario, anche quando ero stanchissimo».
Che De Gasperi non ostentasse la sua religiosità è confermato anche dal fatto che a messa andava per conto suo e, spesso, con la famiglia, la domenica si recava a San Pietro come un fedele qualunque. Nelle manifestazioni religiose che coinvolgevano a vario titolo i politici non era quasi mai presente. Fece eccezione la sua adesione a un turno dell’allora esistente adorazione notturna del Santissimo Sacramento riservato ai politici cattolici. Invece promosse, all’apertura dell’Assemblea costituente, il Veni Creator collettivo, motivandolo con la frase di Benedetto Croce secondo la quale non possiamo non dirci cristiani.
Ci furono alcuni sacerdoti con cui De Gasperi ebbe dimestichezza sul piano strettamente religioso: ricordo padre Caresana, parroco della Chiesa Nuova, e padre De Bono. Soprattutto fu il vescovo di Trento, monsignor Endrici, l’elemento base in tutta la sua vita, il suo mentore da ragazzo, colui che gli fu vicino quando, sotto il fascismo, cominciarono i suoi guai di carattere politico. De Gasperi nutriva anche una grande amicizia per don Giovanni Battista Montini, ma forse, più che a Montini sacerdote e a Montini uomo della Segreteria di Stato, sul quale i cattolici potevano contare per rimettere in piedi un movimento politico, De Gasperi era legato a monsignor Montini figlio di un suo grande amico deputato popolare.
Un altro punto di riferimento essenziale per De Gasperi fu la famiglia, per la quale aveva un affetto particolarmente vivo: parlava spesso dei sacrifici fatti dalla moglie negli anni difficili della persecuzione fascista e della disoccupazione. E lo vidi commosso profondamente quando la figlia Lucia entrò in convento all’Assunzione. Certo il grande lavoro politico sacrificava non poco la vita familiare, ma l’attaccamento alla moglie e alle figlie era fortissimo, e a loro dedicava il poco tempo libero, non concedendosi quasi mai una ricreazione. Le bocce durante l’estate o qualche pranzo domenicale con Bonomelli a Castel Gandolfo erano il suo unico divago.
Accennavo alle difficoltà economiche che affrontò durante il fascismo. De Gasperi resta d’esempio proprio per questa sua coerenza personale: non ebbe mai transazioni sui principi e, quando arrivò al potere, non profittò mai della vita pubblica per avere quello che forse poteva essere un giusto compenso per i momenti in cui la società gli aveva tolto beni materiali e i suoi diritti di cittadino. Vorrei ricordare una frase, quasi di scherno, che mi ha sempre colpito negativamente, detta una volta dal comandante Lauro, su De Gasperi: «Si dice sempre “bravo De Gasperi”, ma uno che arriva a settant’anni e non ha messo insieme un patrimonio, vuol dire che non è così bravo». De Gasperi, è vero, non ha mai messo da parte un patrimonio, la casa dove abitava a Roma, in via Bonifacio, era in affitto ed era modesta. Quando la Dc gli regalò una villetta vicino al lago di Albano, nei castelli romani, De Gasperi ne fu molto contento, ed era la prima volta che diventava proprietario di un immobile. Ma non è mai stato vittimista, solo qualche volta era stato un po’ amaro, pensando a quelli che si erano squagliati ai tempi dell’instaurazione del regime e che avevano fatto finta di non conoscerlo. Furono, come detto, anche tempi di grande disagio economico per lui, e, a causa della persecuzione politica, anche il Vaticano faticò per trovare un escamotage per dargli un piccolo lavoro in biblioteca. Eppure non ebbe mai sentimenti di vendetta o rivalsa. Anzi, quando molti “ex” si rifecero vivi solo perché il fascismo era al tramonto, li riaccolse a braccia aperte. Mi viene in mente la parabola del figliol prodigo.
A parte l’osservanza regolare del precetto festivo, anche su altri aspetti della vita religiosa mi dette esempi personali di rilievo. Ricordo che quando nel 1951 Ivanoe Bonomi, laico socialista, era ammalato gravemente, mi fece cercare d’urgenza monsignor Barbieri (conoscenza del periodo clandestino), perché andasse a trovarlo da sacerdote. Anche del contatto con la Chiesa di un altro “non praticante”, il ministro Sforza, si preoccupò, individuando nel cardinale Celso Costantini (che aveva operato in Cina, Paese al quale Sforza era molto legato) il sacerdote più adatto a prendere contatti. E, visitando la salma di Giuseppe Grassi, ministro liberale morto con i sacramenti, De Gasperi mi disse che vi erano rispettabilissimi non-democristiani, e che sempre dovevamo darci cura della loro vita religiosa, con una parola detta al momento giusto, ma più che altro attraendoli con l’esemplarità della nostra vita.
A questo proposito parlava spesso dei suoi anni giovanili e dell’apostolato che svolgeva tra gli studenti e anche tra i lavoratori, sia a Trento sia in Austria. Era fiero di queste sue antiche origini di apostolato sindacale.
De Gasperi era diverso e superiore agli altri e chi aveva la ventura di lavorargli vicino sentiva il fascino di un impegno appassionato, profondo, non stancabile. Ho già accennato alla sua severità, di cui era il primo a dare l’esempio. Una volta, colpito dal giudizio critico che davo sui nostri colleghi avversari, disse a mia moglie: «Da vecchio suo marito sarà più maligno di Nitti». Cito questo piccolo episodio solo per dire come De Gasperi volesse che anche noi, suoi collaboratori, non uscissimo mai dal seminato, e che nel comportamento personale facessimo anche più del nostro dovere. In questo era più un superiore religioso che un leader politico. Era scarso di lodi, ma una parola di apprezzamento, nel suo costume così asciutto, valeva più di un encomio solenne. Nella scelta delle persone si affidava a volte a vecchie conoscenze familiari, ma per gli incarichi di responsabilità nei ministeri valutava rigorosamente solo le capacità delle persone candidate.
Come leader della maggioranza e della Dc suscitava anche invidie e tentativi di affossamento. Specie dopo la vittoria democristiana alle elezioni del 1948. Personalmente era soddisfatto del successo e della posizione di potere ma non li usava mai per fini propri. Sentiva di avere una missione, di svolgere un servizio al prossimo (cosa facile a dirsi ma molto più difficile da praticare) secondo un disegno di Dio che per questo conferisce carismi e opportunità. La gente lo percepiva, e i suoi comizi erano raduni di folle eccezionali.
Sotto un altro aspetto non si dava caso di bisogni concreti di cui venisse a conoscenza senza che cercasse di andare in aiuto. Le soluzioni vanno sempre trovate, diceva. Fece notizia la telefonata di De Gasperi al sindaco di New York Fiorello La Guardia per ottenere le navi cariche di farina per fare il pane della tessera annonaria (fonte di sostentamento della popolazione italiana nel dopoguerra); ma gli interventi di questo genere erano quotidiani per lui e tutta la sua vita pubblica era ispirata alla elevazione degli umili. E la gente lo sapeva. Per questo anche i suoi funerali furono grandiosi: il treno che trasportava la salma trovò folle immense a ogni stazione. A Roma vi fu, sia nella veglia alla Chiesa del Gesù sia nella messa funebre e nel corteo fino a San Lorenzo al Verano, una presenza massiccia non solo di autorità, ma di popolo minuto, commosso e orante. Fu un trionfo spontaneo unito alle condoglianze giunte da tutti i Paesi del mondo.
De Gasperi è stato un grande cristiano. E lo dico senza entrare nel tema della causa di beatificazione, perché è vero che De Gasperi ci insegnò a pregare nei momenti difficili, ma fu un grande cristiano soprattutto perché resta l’esempio più chiaro di una politica intesa con la “P” maiuscola. Tanto che la sua fede, come ho detto, si percepisce soprattutto ripercorrendo la sua storia politica.
Verso gli avversari non era mai aggressivo in modo volgare, anche quando lo erano gli altri nei suoi confronti (Togliatti parlò di «calci al sedere a De Gasperi»). Certo era polemico, duro, perseverante. Era intransigente con le idee opposte. Dopo il ’45 invitava a non sottovalutare il pericolo di un ritorno del fascismo con la stessa tattica del 1922. Ma non era meno fermo verso il comunismo, anche se ho l’impressione che fino al 1947 non ritenesse eccessivo il pericolo comunista.
Il terreno di maggior scontro con i comunisti fu l’adesione italiana al Patto Atlantico nel 1949: De Gasperi fu accusato dai comunisti, e anche da alcuni ambienti cattolici, di condurre la nazione verso un’alleanza militare che avrebbe scatenato la terza guerra mondiale. Nel loro furore i comunisti vilipesero anche le leggi di sviluppo sociale per le classi più disagiate che De Gasperi promosse, come la riforma agraria e la Cassa per il Mezzogiorno. L’effetto popolare delle politiche degasperiane era attutito da questa perfidia della sinistra. Persino Padre Pio, così vicino alla povera gente e al mondo agrario, si lasciò convincere e parlò in maniera critica della riforma agraria.
De Gasperi da buon cattolico non avrebbe mai fatto nulla che danneggiasse la Chiesa o la religione, ma non lo definirei un uomo del Vaticano. Aveva la coscienza della responsabilità autonoma del cattolico impegnato in politica. Ed era dell’idea che il Signore concede la grazia di stato per le attribuzioni che sono specifiche per ogni vocazione. Quindi grande attenzione per i problemi della Santa Sede, ma a Cesare doveva esser lasciato quel che è di Cesare. Così, salvo la polemica meschina dei comunisti, nessuno poteva giudicarlo un clericale. Aveva valutato come positivi i Patti Lateranensi e più volte mi disse che, se non ci fosse stato il concordato tra Stato e Chiesa nel 1929, per noi democristiani sarebbe stato durissimo realizzarlo nei primi anni della neonata Repubblica. Sarebbe stata una grossa pietra di inciampo per la presenza politica dei cattolici dopo il fascismo.
C’è però un punto delicato, ed è quello circa i rapporti tra De Gasperi e Pio XII, perché è ancora opinione di molti che papa Pacelli non avesse simpatia per lo statista democristiano e anzi lo avversasse. Fermo restando che il temperamento di Pio XII era piuttosto autoritario, e che il Papa era molto preoccupato dal pericolo di un successo dei comunisti, di cui aveva fatto esperienza in Germania e che erano in quegli anni responsabili di una tremenda persecuzione della Chiesa, non è vero che Pacelli non apprezzasse De Gasperi. E in più di un’occasione ebbe modo di dimostrare pubblicamente la sua stima. Vi furono anche cortesie di rilievo, come l’invito a De Gasperi a intervenire in Vaticano a una rappresentazione in forma privata al Papa dell’Annuncio a Maria di Claudel. Con la Curia De Gasperi aveva rapporti collaborativi ma non frequenti, e se si fa eccezione per quelli che ebbe con Montini (le cui azioni in Vaticano però nei primi anni Cinquanta non erano alle stelle) e con monsignor Kaas, non userei la parola amicizia. Verso chi lo protesse nel periodo dell’occupazione De Gasperi aveva riconoscenza, ma non si può nascondere che le critiche a De Gasperi da parte della sinistra democristiana avevano qualche riecheggiamento in Vaticano.
De Gasperi resta un personaggio irripetibile. Ma cosa resta di lui? Soprattutto resta la grande capacità di guardare lontano, di non accontentarsi, di vedere che gli orizzonti si dilatano. Non fece in tempo a sentir parlare di globalizzazione ma di fatto la sua formazione così multiculturale lo spinse a essere il più forte promotore dell’Europa unita, il sostenitore più convinto dell’idea che la pace sarebbe durata solo in un ambito più vasto di quello tradizionale del rapporto tra i singoli Stati. Intuì che era necessario il superamento di quel nazionalismo che pure era stato alla base della costituzione di molti Stati europei.
Pubblicato sul numero 8 di 30Giorni 2009