Il direttore generale dell'Atalanta

Marino: quel che ho capito di Bergamo e della sua Dea

Marino: quel che ho capito di Bergamo e della sua Dea
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Abita a Milano, inizia prestissimo la mattina e smette di lavorare molto tardi. Dice di non guardare mai l’orologio, ma ai polsi ne porta due. E quando alle sette di sera un suo collaboratore gli dice: «Direttore, io andrei», lui lo osserva con aria sorpresa e sorniona: «Fai il part time oggi?». Umberto Marino, 46 anni da due mesi, è il direttore generale dell’Atalanta. Nel calcio, una passione totalizzante, ne ha passati 27 e quando parla di pallone gli brillano gli occhi. La sua carriera, cominciata subito dopo aver finito ragioneria ed essersi iscritto l’Università, è partita da Crevalcore, una società di Interregionale, fino ad arrivare all’esperienza di oggi con la Dea.

In Emilia faceva di tutto, dal magazziniere alla raccolta pubblicitaria, passando per le cronache delle partite e la cura del giornalino della squadra. Poteva diventare giornalista pubblicista, ha scritto articoli sul Resto del Carlino e Repubblica. Oggi è al 110 percento dentro all’Atalanta. Gli ultimi minuti della partita contro la Lazio ha rischiato un infarto: avanti e indietro nello SkyBox presidenziale prima di esplodere nella gioia finale insieme a tutto lo stadio.

Lo abbiamo incontrato e ci siamo fatti raccontare come vive l’avventura Atalanta.

Direttore, i tifosi della Dea stanno vivendo un avvio di stagione felice, grazie ai risultati della squadra. Prima di arrivare a Zingonia aveva idea di dove sarebbe andato a finire?

«Uno dei miei più cari amici è atalantino, segue sempre le partite in Curva Nord. Lui mi ha subito fatto capire che cosa è l’Atalanta per i bergamaschi. Sul piano professionale conoscevo già alcune persone e non ero preoccupato. Ora che sono qui da qualche tempo devo dire che la città e l’ambiente sono stati una bellissima sorpresa».

Provi a descriverla.

«Non lo faccio con parole mie, ma con una lettera che mi ha scritto un ex-collega di Bergamo, che lavora in una grande squadra. Ogni volta che la rileggo, mi vengono i brividi».

Prego…

Ciao Umbe.

Piccole frasi, assolutamente non richieste, su Bergamo, l’Atalanta ed i suoi tifosi!!!

Bergamo è una gran bella città!  È una terra generosa, con tante iniziative e opere sociali.

La gente è gran lavoratrice (come te, quindi ti troverai bene).

È schietta, un po’ schiva: li conquisterai non tanto con gesti di apparenza ma quando ti vedranno lavorare come sai fare, tanto e con competenza.

A Bergamo è più apprezzato il fuoco della brace che la luce dei fuochi d’artificio!

Amano le persone vere.

Fin qui la professionalità; ma c’è di più:

L’Atalanta per i tifosi bergamaschi non è una squadra da tifare.

È una persona della propria famiglia.

L’Atalanta è loro.

Qui sta la differenza con tante altre piazze. Passami l’esempio ma è così: per loro l’Atalanta è come una figlia. E vado avanti con questo esempio un po’ ardito ma che rende l’idea; voi dirigenti non siete i proprietari ma i “custodi” a cui è affidata la propria figlia (come quando un genitore manda la figlia in un college: vuole che i direttori siano all’altezza).

Antonio e Luca Percassi sono amati perché anche per loro l’Atalanta abita la loro casa. Con l’onere di essere anche i proprietari!

Potrei continuare ma, essendo consigli non richiesti, metto il punto.

Sinceramente un grande in bocca al lupo.

È bellissima, chi è costui?

«Non posso dirlo».

Non cominci coi silenzi, direttore. Com’è lavorare con i Percassi?

«Antonio Percassi e la sua famiglia sono un valore aggiunto per l’Atalanta. Conoscono il territorio, conoscono i tifosi, conoscono il calcio. Sia Antonio che il figlio Luca, presidente e amministratore delegato della società, hanno giocato e vissuto il calcio da dentro. Sono stati nello spogliatoio da calciatori. Capiscono e conoscono benissimo le dinamiche dell’azienda calcio in tutte le sue sfaccettature. Credo che ci sia un’immagine che spiega al meglio quanto l’Atalanta sia importante per la famiglia Percassi: fino a quando a Zingonia ci saranno i limoni, tutti i tifosi nerazzurri e tutti quelli che lavorano nell’Atalanta possono stare tranquilli».

I limoni? Che c’entrano le piante di limoni?

«Sono la firma di Antonio Percassi, ci sono in tutte le sue aziende. A chi ha avuto la possibilità di osservare bene il centro Bortolotti, questo particolare non può essere sfuggito: c’è una limonaia proprio nella zona d’ingresso alla palazzina con gli uffici, vicino alla scalinata che i giocatori percorrono quando arrivano. Sono gli stessi che si ritrovano praticamente in tutte le strutture che ospitano le sue aziende. Rappresentano un suo segno distintivo, l’ho notato subito e ho capito molto presto il significato: dove ci sono i limoni, c’è Antonio Percassi con tutta la sua famiglia al timone dell’azienda».

 

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Lei è un osservatore attento. E oltre ai limoni, il rapporto con la proprietà com’è?

«Non c’è voluto molto per rendersi conto di quanto i Percassi vivano e soffrano per l’Atalanta. È il loro primo pensiero del mattino e l’ultimo della sera. Per 25 ore al giorno sono sul pezzo. Dentro l’Atalanta. Non mi è mai capitato di lavorare con una proprietà che sentisse così tanto la partita. Li vedi soffrire allo stadio, partecipano con grandissimo trasporto. La grande fortuna che ha la società  nerazzurra, a mio parere, è che vicino a tanta passione ci sono capacità imprenditoriali di altissimo profilo. Con Luca il confronto è quotidiano e costante. Tra e-mail, messaggi e telefonate lo scambio di informazioni è continuo. Lavoriamo veramente molto e con grande passione. Il presidente lo sento un po’ meno, ma quando arriva una sua telefonata c’è sempre qualcosa di importante di cui parlare. Non ho soggezione di lui, assolutamente. Provo solo grande ammirazione».

Un esempio?

«Quando il presidente parla alla squadra, quando si confronta con i giocatori viene la pelle d’oca. Ho assistito ad un paio di discorsi alla squadra, nello spogliatoio c’era un silenzio assoluto e in quel minuto di parole sono venute fuori cose veramente importanti. Toccanti. Sentite. 60 secondi che, ve lo assicuro, valgono più di un’ora di comizio di qualcun altro. È incisivo, aggredisce il problema come aggrediva l’uomo in campo».

Cosa diceva?

«Certi contenuti restano nello spogliatoio come è giusto che sia, ma è impressionante come riesca a motivare tutti. È sempre sul pezzo, sempre giusto nel tono e nelle parole. Da Presidente con la “P” maiuscola”».

Sì, ma nelle stanze che contano, in Federazione e in Lega, quanto conta l’Atalanta?

«Il grande livello di cui parlavo e la loro competenza sono ampiamente considerati a livello nazionale. I Percassi conoscono il sistema economico del Paese, hanno uno sguardo internazionale e il loro parere viene sempre tenuto in considerazione dagli altri presidenti e dai dirigenti. Nelle riunioni di Lega sono spesso io a presenziare, ma ogni decisione fra noi è presa in modo collegiale. Ci si confronta, ci si ferma e si partecipa anche con delle call-conference. Quando tocca al presidente parlare, c’è grandissima attenzione da parte di tutti».

Quanto costa o quanto ci si guadagna ogni anno l’Atalanta? E come si ripaga o rende?

«Certamente, in impegno e in salute, l’Atalanta costa tantissimo ai Percassi. È difficile fare un conto economico, ci sono tante componenti in gioco, ma vi assicuro che la proprietà con l’azienda Atalanta non ci guadagna. Dal punto di vista finanziario, dobbiamo sottolineare un dato che ai più può sembrare incredibile, ma che è reale: l’incidenza dei diritti televisivi, sul bilancio della società, è molto inferiore rispetto a quella di molti altri club. Questo è un dato oggettivo, rispetto all’introito che garantisce la permanenza in A (oltre 30 milioni, ndr) negli ultimi anni la società è stata brava ad aumentare sia la propria forza commerciale che il player-trading, ovvero la monetizzazione delle cessioni a fronte di acquisti mirati ed economicamente ben ponderati. L’Atalanta deve sempre essere in grado di bilanciare i ricavi su queste tre voci. E in questo senso siamo molto più europei rispetto al panorama nazionale».

Un po’ di cifre, grazie…

«Parliamo del 46 percento di ricavi da proventi televisivi a fronte di plusvalenze che valgono il 27 percento, ricavi commerciali che valgono il 20 percento e biglietteria che si attesta sul 5 percento. Questi numeri negli ultimi tre anni si sono stabilizzati al ribasso per i diritti televisivi e al rialzo per le altre voci (sempre dal punto di vista percentuale), a testimonianza di come l’Atalanta debba comunque essere organizzata e lavorare senza mai perdere di vista l’equilibrio di gestione».

Lo stadio migliora, aumentano i ricavi e quindi si può diminuire il “player-trading”, cioè la compravendita dei giocatori: è una chiave di lettura giusta?

«Non si può fare un’equazione di questo tipo. Il pensiero della proprietà è stato primariamente legato alla volontà di migliorare lo stadio, non a come farlo fruttare di più. La filosofia dei Percassi è chiara: vogliamo ridare a Bergamo uno stadio all’altezza della situazione, bello e confortevole per l’Atalanta e per la sua gente. L’obiettivo non è renderlo prima di tutto una fonte di guadagno sempre maggiore. Noi vogliamo riportare la gente allo stadio e il dato di questa prima parte di stagione attesta le presenze sulle 15-16.000 unità. Considerando le condizioni meteo che in alcuni casi sono state avverse, come ad esempio contro la Lazio, penso che ci sia solo da dire grazie a tutti i tifosi. Viviamo un momento in cui ci sono tanti lacci e lacciuoli nel sistema calcio che non favoriscono di certo i tifosi che vogliono accedere agli impianti. Guardare la partita in televisione spesso è più comodo, ma io vorrei rivedere in tutti gli stadi la passione che c’era negli anni ’80 e negli anni ’90. Un po’ si è persa».

Il riscontro da parte dei tifosi sullo stadio ristrutturato, finora, come è stato?

«Molto positivo, ma bisogna valutare e guardare gli investimenti nel medio periodo. Parliamo di lavori importanti e di una spesa significativa sostenuta dalla società. Non va trascurato, poi, il grandissimo ritorno d’immagine che la ristrutturazione ha portato e sta portando all’Atalanta. Quello non è un dato tangibile, si fa fatica a misurarlo, ma è estremamente interessante. La Federazione e altri club sono venuti a vedere i lavori e tutti sono rimasti colpiti. I progettisti e le aziende hanno fatto un lavoro meraviglioso in un tempo brevissimo: credo che fuori da Bergamo non sia pensabile fare certe cose in soli tre mesi. I bergamaschi sono grandi lavoratori e lo hanno dimostrato ancora una volta».

 

B

 

Per andare davvero in Europa serve uno stadio a norma. La strada sembra tracciata, possiamo finalmente guardare avanti con fiducia?

«Io sono molto prudente. I bergamaschi sono pragmatici al 100 percento, io lo sono di più. Battute a parte, sappiamo bene che l’intenzione di Comune e Atalanta è quella di migliorare lo stadio, ci sono dei discorsi aperti ma non bisogna dimenticare che essendo un bene pubblico servono alcuni passaggi ufficiali. Come ad esempio la valutazione da parte di un funzionario preposto. Ci sono tante cose da ponderare e da seguire, gli scenari sono quelli della concessione o dell’acquisto e stiamo procedendo».

E con l’Albinoleffe come la mettiamo?

«Il nostro interlocutore sullo stadio è il Comune di Bergamo».

In ogni caso i tifosi sognano, la squadra gira e la proprietà è una garanzia. Quindi l’Europa…

«È giusto, sacrosanto che i tifosi sognino. Io però da dirigente devo essere prudente, mantenere i piedi per terra e pensare sempre e per prima cosa alla permanenza in serie A. È fondamentale. In linea generale, e senza guardare troppo in casa degli altri, dico che una proprietà così non può che rappresentare una certezza per il medio e lungo periodo. Quello che accade in campo lo vediamo tutti, in società stiamo lavorando per consolidarci e migliorare la struttura. Non abbiamo introiti o un bacino d’utenza come quello delle big e allora servono fantasia, attenzione e grande rapidità nell’affrontare le problematiche, le opportunità che si presentano e, ove possibile, anticiparle».

A proposito, quanto spediamo per i nostri segugi che sono in giro per il mondo a scovare i nuovi de Roon?

«Senza fare delle cifre, vorrei focalizzare l’attenzione sulla filosofia di Giovanni Sartori, direttore dell’area tecnica. Il lavoro viene svolto monitorando i campionati nazionali, quelli europei e le competizioni sudamericane. Ci sono collaboratori che viaggiano continuamente, vengono osservati centinaia di giocatori di ogni livello, perché è chiaro che l’Atalanta non possa andare a comprare i fenomeni del Real Madrid. Bisogna osservare e anticipare le mosse, guardare ai giovani e spingere sullo scouting e sulla crescita del settore giovanile. L’investimento è rilevante, ma i risultati poi non mancano, basta guardare gli elementi che sono arrivati in questa stagione».

Perché siamo andati in Cina?

«È un dialogo iniziato l’anno scorso con gli Atalanta Camp, adesso siamo in una fase di approfondimento con le istituzioni locali insieme a Matteo Percassi e al direttore marketing Romano Zanforlin per capire cosa e come si può far crescere la collaborazione. Certamente sigleremo dei protocolli comuni con la realtà cinese, a quelle latitudini l’Atalanta è considerata tanto come l’Ajax: parliamo di settore giovanile, di come a Bergamo si allevano i ragazzi. I tecnici cinesi guardano l’Atalanta. Non dobbiamo dimenticare che oltre ai ragazzi che oggi si giocano la serie A abbiamo circa 40 giocatori tra serie B e Lega Pro. Questi sono dati che non passano inosservati, in Italia e nel mondo».

Marino, come si trova con il gruppo di lavoro di Zingonia?

«Io cerco sempre di integrarmi al meglio con l’ambiente di lavoro, con le persone che collaborano con me, ma anche con i tifosi e tutti coloro che vogliono bene alla squadra. Provo a coinvolgere, siamo tutti colleghi e le problematiche non vanno mai imposte, ma condivise, per poi arrivare ad una soluzione sentendo il parere di tutti. Chi lavora con me deve essere sereno, sentirsi partecipe e capire la fiducia in un progetto condiviso. In Atalanta ci sono figure di grande esperienza, di grande professionalità ma soprattutto c’è una passione che difficilmente si trova in altri club. Questo approccio ti permette di chiedere, quando serve, di lavorare moltissimo. Si arriva anche a 14 ore al giorno. Vedo gente che lo fa con voglia e una grande passione. È molto importante».

Uno su tutti?

«Dorino, il magazziniere. Un autentico fenomeno. Giro da 27 anni gli spogliatoi e non ho mai visto una società dall’Interregionale alla serie A che si muove andando in trasferta con un magazziniere solo. Dorino arriva ovunque, lavora per tre e non dice mai una parola. “Buongiorno” o “Buonasera” sono le uniche cose che dice. È pazzesco, veramente. Mi è capitato di vedere situazioni in passato in cui 4 o addirittura 5 persone con la sua mansione si adoperavano perché tutto fosse a posto. Lui arriva ovunque e senza intoppi. Dal materiale piegato nello spogliatoio a tutto quello che muove un gruppo di 23 giocatori più 10 uomini dello staff. Lo ribadisco, è un fenomeno».

Ultima domanda: com’è il suo rapporto con la stampa orobica?

«Ottimo, direi. Io cerco di essere trasparente e chiaro con tutti. Non mi piace dare buchi o essere scorretto, preferisco instaurare un rapporto di fiducia e magari parlare apertamente per poi chiedere che certi confronti restino privati. È una questione di correttezza, di come uno si pone. Dall’altro lato, vedo che ci sono tanti giornalisti che sono innamorati dell’Atalanta e scrivono con il cuore: qualche collega l’ho già conosciuto, altri li scoprirò con il tempo».

 

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