La campionessa Gabbiadini

Melania nella storia del calcio

Melania nella storia del calcio
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Messi ce l'abbiamo noi. Ha la voce da usignolo che pare cinguetti. I modi gentili. I capelli biondi tutti sparati. «Ma io quella tecnica estrema non ce l'ho, dieci avversari insieme non li ho mai saltati, e il paragone mi fa un po' sorridere», dice lei, Melania Gabbiadini, che, arrivata a 33 anni, ancora riesce a stupirsi delle cose e a godersele come a vent'anni. Per esempio entrare nella Hall of Fame del calcio italiano (il 17 gennaio appena trascorso). Dopo Carolina Morace e Patrizia Panico, è Meli da Calcinate l'eletta per un posto nel museo del calcio. Vicino a Baggio e Tardelli. Una nicchia nella Storia. Guadagnata a forza di scudetti, dribbling, gol, cadute, volontà, tenacia, coppe, premi prestigiosi, riconoscimenti, sacrifici. Perché il calcio femminile non è (solo) roba per ragazzine. «È un onore, una cosa bellissima». Melania sta decidendo che cimelio portare, ma probabilmente consegnerà un paio di scarpini che le aveva regalato il fratello Manolo, il calciatore del Napoli. Che se è diventato un calciatore il merito poi è tutto di Meli, la più grande: Manolo quando era piccolo si faceva portare dai suoi genitori a vedere sua sorella giocare, e sognava di diventare un giorno bravo come lei.

A dirla così, sembra una storia alla rovescia. Ma chi l’ha detto che sono le donne a voler fare quello che fanno i maschi? In un mondo machista e orientato al culto dell'uomo (in Italia il calcio femminile è ancora dilettantistico), riconoscimenti come l'ingesso nella Hall of Fame aiutano a far crescere il movimento, a dare un senso all'evoluzione della specie. «Qualcosa sta cambiando, è vero - aggiunge Melania -, il calcio femminile sta crescendo. Ma se lo mettiamo a confronto con gli altri Paesi siamo ancora indietro. Ci vorrà del tempo. Anche a livello mediatico si vede qualcosa in più. Non troppo, eh».

 

Gabbiadini 03

 

Almeno le squadre di A ora devono avere una sezione femminile, può essere un inizio?
«Far parte di un club maschile a pieno titolo dà molta visibilità, questo certamente. È una base concreta per qualcosa di più, ma non dobbiamo certo fermarci qui e adesso».

Cosa dovrebbe succedere in Italia perché le cose cambino?
«Più investimenti. Gli altri Paesi l'hanno fatto in tempi diversi e infatti stanno raggiungendo risultati importanti. Questo tipo di investimento qui da noi ancora non c'è».

Ha mai pensato di giocare all'estero?
«Ho avuto delle proposte in Germania, in Francia al Psg, anche negli Usa. Ma io sono una persona che difficilmente se ne va, soprattutto se mi lego a un posto. Se mi fosse capitata a vent'anni, chissà. Ormai ho la mia età, il fisico comincia a farsi sentire e andare a fare figuracce in giro non mi va».

Certo che la Mls è un mondo affascinante…
«Cinque anni fa mi proposero di andare a Chicago. Era gennaio, stavo a Verona e avevo un contratto da finire. Io non sono una che lascia le cose a metà».

Un maschio avrebbe detto sì?
«Quello maschile e quello femminile sono due mondi completamente diversi. E poi sono convinta che dipende da persona a persona, come in tutte le cose».

Si è mai pentita?
«Nessun pentimento, no. Alla fine tutto quello che ho fatto è stata una mia scelta che ho deciso di portare avanti».

 

Gabbiadini 02

 

Qual è il bello del calcio femminile?
«È pulito e sano. Non ci sono situazioni che ti portano a trovare qualcosa di negativo. Soprattutto dal punto di vista umano. Noi ragazze lo viviamo con tanta abnegazione, grinta, voglia, ma anche con tanto divertimento».

E il brutto del calcio maschile?
«Forse si è un po' perso lo spirito. Non credo dipenda dai singoli, è il sistema. Tutto ruota intorno ai soldi, che condizionano anche le scelte. Nel femminile invece siamo noi, in prima persona, che prendiamo una decisione».

Cioè?
«C'è proprio un fattore diverso: molte squadre si allenano la sera. Magari una ragazza non fa nemmeno in tempo a mangiare che deve andare ad allenarsi. Non lo facciamo come lavoro. Ci sono ragazze che studiano, che fanno altro».

Ha fatto molti sacrifici?
«Studiavo grafica, mi alzavo alle sei del mattino e la giornata finiva alle undici di sera, dopo gli allenamenti e i compiti da fare. Ma riuscivo a fare tutto, e andavo anche bene a scuola».

Cosa fa quando non gioca?
«Uscivo molto di più, adesso sono più tranquilla. Nel weekend mi concedo qualche uscita. Altrimenti anche un film a casa va bene».

Lei riesce a vivere di calcio?
«Ho sempre lavorato. Un lavoro l'ho sempre avuto e ce l'ho anche adesso. Ad ogni modo, una volta che il calcio finisce un lavoro lo devi fare per forza».

 

Gabbiadini 04

 

E lei cosa farà, come si vede tra vent'anni?
«Con qualcosa che sto progettando adesso, e non c'entra nulla con il calcio…».

Ci dice di più?
«Eh no, si vedrà».

E poi?
«Mi piacerebbe allenare una squadra di bambini. L'ho già fatto, è bello, ma niente più alto di un bambino, per carità» (ride, ndr).

I grandi sono ingestibili?
«A me piacciono i piccoli, sono molto paziente e loro sono così innocenti. Questa cosa è molto bella, mi piace un sacco. Ho già avuto l'opportunità di farlo, l'esperienza mi è piaciuta davvero tanto».

Cosa consiglierebbe a una bimba che vuole giocare a calcio?
«Di credere sempre in quello che fa, e di divertirsi. È una crescita di vita, ti crei rapporti con persone, ci sono tanti aspetti positivi».

A proposito di consigli, all'altro Gabbiadini di casa, Manolo, ne ha dati molti?
«A dire la verità di calcio parliamo poco, pochissimo. Quando eravamo più piccoli qualcuno magari sì, eravamo sempre insieme, guai a dividerci. Mi seguiva alle partite e lo fa ancora, quando riesce. Abbiamo otto anni di differenza, ormai è grande. E poi mio fratello non è uno sbruffone, sa gestirsi benissimo da solo».

Da piccolo diceva che voleva essere forte come lei.
«È sempre stato forte. Chi è più forte tra me e lui non lo so. Mio fratello è mio fratello».

Lui, al momento, è un po' come il calcio femminile, cioè un po' sottovalutato?
«Ma no, sono situazioni in cui uno si può trovare. Non tutto può andare sempre bene. Adesso sta capitando a Manolo come è capitato ad altri giocatori. Ma lui sta bene, sta cercando di dare tutto, come ha sempre fatto».

Lei ce l'ha un idolo?
«Sheva, sono milanista. Poi però è arrivato Pato e lì è scattata l'adorazione per lui. Per tutto. Il gioco, l'istinto, la tecnica. Anche fisicamente, eh».

Il calcio lo guarda ancora?
«Molto meno rispetto a un paio di anni fa. Anche se c'è una partita di cartello, preferisco fare altro. Seguo Manolo, questo sì».

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