I Miccichè, i farmacisti di Dalmine Una nomea inossidabile dal 1948
C’erano una volta Lina Landi e Gaetano Miccichè, gli anni Quaranta, e la gestione di una farmacia in Pavia città. Poi ci fu l’arrivo dei figli Giuseppe e Dino, l’avvicinarsi dell’atteso dopoguerra, e la comparsa di un’offerta allettante per i coniugi Miccichè: acquistare una nuova farmacia in una località dal nome Dalmine.
L'arrivo a Dalmine. «All’epoca i miei genitori sapevano soltanto che Dalmine era un luogo dove venivano fabbricati tubi», racconta Giuseppe, che gestisce la farmacia storica insieme ai figli Massimo (46) e Marina (41), oggi titolari dell'attività. «I miei hanno deciso di trasferirsi qui nel 1948, quando avevo cinque anni. E si sono trovati bene fin da subito, ad eccezione del problema dato dal dialetto. Mia madre veniva da Modena, mio padre era siciliano, e allora la gente di qui parlava solo bergamasco stretto. Puoi immaginare quanto fosse faticosa la comunicazione». Col tempo, tuttavia, gli angoli della difficoltà linguistica si smussano, tanto che i Miccichè finiscono per diventare un prezioso punto di riferimento per i cittadini del comune dalminese, ma non solo. «Eravamo l’unica farmacia del paese, ma anche l’unica per i paesi limitrofi».
Una nomea inossidabile. Benessere e modernità hanno portato alla nascita di altre cinque farmacie sul suolo di Dalmine, ma la fiducia riposta nel nome Micciché non è stata intaccata. Merito di una nomea inossidabile, costruita negli anni, e di una ricerca continua di locali e macchinari all’altezza dei bisogni che caratterizzano i tempi moderni. «Nel 1976 dai portici di via Mazzini, ci siamo spostati in viale Betelli. Poi, nel 1981 ci siamo trasferiti in Largo Europa. L’ultimo spostamento è avvenuto sei anni fa, quando ci siamo sistemati nei locali in cui siamo oggi».
I figli, la stessa passione. Giuseppe è nato e cresciuto tra gli scaffali ricolmi di ricette e boccette misteriose agli occhi d’un bambino. Le stesse che lo hanno convinto nel 1966 a imboccare la strada intrapresa dai genitori: «Da piccolo mi incuriosiva tutto quello che riguardava la farmacia, ero interessato alle preparazioni, ai laboratori. Allora, di farmaci, ce n’erano pochissimi. Tanti prodotti erano preparati proprio nel laboratorio. Mio padre e mia madre mi facevano vedere delle reazioni chimiche che mi lasciavano sbalordito: cambiamenti di colore, precipitazioni. Cose che mi interessavano tanto. Sono cresciuto con il piacere di poterci lavorare. Ho scelto di laurearmi in Farmacia senza che nessuno mi imponesse nulla».
Anche il fratello prende la stessa scelta. Insieme diventano soci della farmacia di famiglia, finché Dino, sei anni fa, decide di lasciare. «Adesso sono socio dei miei figli che, come me, sono stati liberi di decidere se dedicarsi o meno a questa professione. Sono fiero di vederli lavorare con entusiasmo. E se una volta erano loro a chiedere consiglio a me, oggi sono io che ho bisogno di consultarmi con loro prima di prendere una de cisione».
L’attenzione alla motivazione è un aspetto che Giuseppe sperimenta anche grazie agli studenti che giungono per conoscere il mondo della farmacia: «Una ragazza liceale che si è presentata per capire come si lavorasse qui. Ne è rimasta entusiasta, si è iscritta a Farmacia, ha fatto il semestre di stage da noi ed è stata eccezionale. Una volta che sarà laureata avrà il posto assicurato. La sua storia è un esempio di come gli studenti, qualche volta, vivano l’idea dell’alternanza scuola-lavoro come una forma di sfruttamento, e non capiscono che in quelle ore può nascondersi un’opportunità preziosa».
Una vita salvata. Lo scorso mese, Giuseppe ha ricevuto il riconoscimento per i cinquant’anni di iscrizione all’albo dei farmacisti dall’ordine di Bergamo. Un traguardo che lo rende soddisfatto, tanto quanto lo rende soddisfatto il successo della sua attività: «Siamo diventati un punto di riferimento perché offriamo tanti servizi, tra cui una Spa che funziona bene. Abbiamo personale valido, e clienti che ci sono molto affezionati». Uno, in particolare, che deve la vita alla farmacia Miccichè e che Giuseppe sceglie di rievocare se gli si chiede di pescare uno tra i tanti aneddoti vissuti in più di cinquant’anni di attività: «Ricordo un signore che si è presentato da noi dicendo di stare male. Gli ho misurato la pressione e mi sono accorto che aveva un’aritmia. Aveva un infarto in atto. Abbiamo chiamato l’ambulanza: sono riusciti a salvarlo. Pochi giorni dopo è tornato per ringraziarci, ci ha detto che gli abbiamo salvato la vita. Accorgersi di un infarto non è facile: molte persone lo scambiano per un'indigestione, perché crea un fortissimo dolore di stomaco. Poter salvare quell’uomo è stato un gran motivo di soddisfazione».