Intervista esclusiva

Gasperini, il personaggio dell'anno

Gasperini, il personaggio dell'anno
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Gian Piero Gasperini, il 2017 è stato l’anno migliore della sua vita?
«È stato un grandissimo anno, dal punto di vista sportivo direi proprio di sì. Ho avuto tanti riconoscimenti, abbiamo fatto qualcosa di eclatante raggiungendo risultati incredibili con una continuità pazzesca. Sono stati dodici mesi senza soste. Qualcuno dice che saranno irripetibili, ma mi auguro che non sia così: vorrei un altro anno ancora più bello. Ma devo dire che il 2017 è stato fantastico».

Possiamo definirlo l’anno della sua consacrazione, anche in Europa?
«Abbiamo fatto qualcosa che a livello europeo ha avuto un’eco enorme. Sono felice per i ragazzi, per la società e per la città di Bergamo, l’ambiente nerazzurro si è fatto conoscere ancor di più anche grazie ai giovani che sono cresciuti. Siamo riusciti a far vivere trasferte con migliaia di persone al seguito in giro per l’Europa. Qualcosa che non si vedeva da tempo. E poi c’è l’apprezzamento degli avversari, sia tifosi che addetti ai lavori. Questa è una cosa molto difficile da ottenere, ma allo stesso tempo molto emozionante».

Un complimento in particolare che l’ha davvero colpita?
«Nei giorni scorsi, mi ha mandato un messaggio Arrigo Sacchi. Ha scritto parole commoventi. Si è congratulato, ha parlato del coraggio che mettiamo in campo e del piacere che prova nel vederci giocare: la sua considerazione è massima, indipendentemente dai risultati che otterremo. Mi ha colpito davvero, è stato qualcosa di inaspettato e molto profondo anche perché non abbiamo un rapporto così stretto. L’ho chiamato e l’ho ringraziato».

 

 

Lei è uno che si emoziona?
«Certamente sì, di fronte a certe situazioni per forza. La verità è che poi alla fine ho due maschere e cerco di utilizzarle al meglio per proteggere quelle emozioni».

Hanno definito l’Atalanta coraggiosa e aggressiva: è come lei?
«Credo di essere uno molto coraggioso, sì. Aggressivo... diciamo che non aggredisco mai per primo, ma se mi sento attaccato rispondo. Sono reattivo, più che aggressivo».

Si è mai fermato, in questi 18 mesi, per guardare cosa diavolo stava combinando la piccola grande Atalanta?
«Uno degli aspetti più brutti del mio lavoro e, forse, anche del mio carattere è che vado sempre avanti ponendomi degli obiettivi nuovi. E quando arriva un momento di stacco, mi vien quasi da dire: “Oddio, adesso cosa faccio?”. Questa è una cosa che ti impedisce di guardare indietro. Capita sicuramente di rivedere cose del passato che ti emozionano, ma non sono uno che si ferma tanto. I successi dell’anno scorso, ad esempio, non li riguardo mai. Nemmeno la festa finale. Forse questa è una sfumatura del mio carattere, sono ambizioso e penso sempre al dopo, alla prossima gara, al prossimo impegno. È la mia indole».

Calcisticamente parlando, Bergamo è completamente destabilizzata dal suo lavoro.
«E di questo sono contentissimo, ma sono anche convinto che non vi piacerà più nessun altro tipo di calcio (ride, ndr)».

La soluzione è semplice: si ferma a Bergamo vent’anni e siamo a posto.
«Ok, ma che sia tra un giorno o tra vent’anni è nella natura delle cose che prima o poi tutto finisca. Però sono contento di aver sfondato un muro che conteneva un modo di intendere il calcio che adesso non c’è più: ero convinto di poterlo fare e ce l'ho fatta. Metteteci un po’ di fortuna o di quello che volete, ma i risultati sono arrivati».

 

 

È la prima volta che le riesce?
«No, l’avevo fatto anche al Genoa. In Liguria mi rimproveravano perché non difendevamo: la concezione in voga era “primo non prenderle”, poi in qualche modo si doveva provare a vincere. Attraverso la sofferenza e la fatica. Adesso comunque si soffre e si fatica, ma penso di aver ribaltato il modo di intendere il calcio, lì come a Bergamo. Oggi l’Atalanta può andare a giocarsi alla pari certe partite e confrontarsi con chiunque»

Contro la Lazio e contro il Milan questa cosa si è vista.
«Sono state veramente due belle partite. Con la Lazio ero molto dispiaciuto di non aver vinto perché con un successo sarebbe stata una gara che passava direttamente agli annali, ma in quei novanta minuti ho di nuovo rivisto una squadra con la potenzialità di fare un altro risultato grandioso. Non lo so se ci riusciremo, ma se non ce la faremo, sarà colpa nostra».

Quindi ha già iniziato a studiare il Dortmund?
(Ride, ndr) «Diciamo che l’ho guardato, ho iniziato a seguirlo».

E qual è la squadra che le piace di più seguire?
«Il Manchester City, senza dubbio. Sono un grandissimo estimatore di Guardiola, per me è il numero uno in assoluto. Mi piace anche il modo che ha Conte di lavorare con i suoi calciatori per cercare di tirar fuori il massimo da tutti, ma dal punto di vista calcistico sono ammirato oggi dal City come in passato lo ero dal Barcellona. Ci sono squadre che vincono e nessuno si ricorda, altre che invece restano nella storia: il Barcellona di Guardiola come il Milan di Sacchi» .

Il calcio per lei è più una passione o un’ossessione?
«Certamente passione. Nella mia carriera ho preso tante batoste, le avessi vissute con ossessione sarebbe stata durissima. Sia nelle vittorie che nelle sconfitte, se ci metti passione tutto viene accettato in modo molto diverso».

 

 

Panatta diceva che tanti insegnano lo sport, pochissimi insegnano a vincere. Che differenza c’è?
«Le vittorie passano da tante cose. Servono capacità e talento per emergere rispetto all’avversario, ma credo che il segreto sia vincere prima di tutto con se stessi. Il nostro poi è uno sport di squadra e quindi il lavoro è complesso. La vittoria non passa solo dal dirsi “sono più forte, vincerò”, ma dalla consapevolezza dei propri difetti, dalla voglia di migliorarsi e dalla strategia che ognuno cerca di mettere in campo per ottenere il massimo».

Meglio vincere immeritatamente 1-0 al novantesimo o uscire tra gli applausi a prescindere dal risultato?
«Una vittoria non si rifiuta mai ma la soddisfazione di ottenerla meritatamente è assoluta. L’applauso del pubblico credo che sia qualcosa di grandioso, bellissimo. Forse la manifestazione d’affetto più gratificante di tutte. Una vittoria strappata nel finale e per il rotto della cuffia è bella, ma molto diversa. Educazione alla vittoria significa anche imparare a perdere: il successo a tutti i costi genera grandi danni. Bisogna lavorare e allenarsi per raggiungere gli obiettivi, ma è importante sottolineare che vincere non è l’unica cosa che conta, come dice qualcuno».

Passando dal tecnico alla persona, lei è un uomo solo?
«No, sono un uomo fortunato. Ho tantissimi affetti, sia in famiglia che tra gli amici. Le persone che mi stimano sono parecchie, così come quelle che mi vogliono bene, come del resto gliene voglio anch’io. Nelle decisioni, invece, sono certamente un uomo solo: quando è il momento di scegliere, non hai alternative».

 

 

Dicono che lei sia uno che ride e scherza ma fino a un certo punto. Ora invece parla di amici veri, ne ha anche nel calcio?
«Sì, anche se più passa il tempo più il cerchio si stringe. Ma non mi posso certo lamentare. Ho vissuto in molti posti diversi e la mia fortuna è essere riuscito a lasciare spesso un segno: capita di stare molto tempo senza vedersi, ma quando i rapporti ci sono ti capisci al volo».

In questo cerchio ora c’è anche Bergamo?
«Mi sono ambientato molto bene. C’è voluto un po’...»

 

Per leggere l’articolo completo rimandiamo a pagina 2 e 3 di Bergamopost cartaceo, in edicola fino a giovedì 4 gennaio. In versione digitale, qui.

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