I morti in Tunisia (è l'Apocalisse)

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Costuma così, diceva mia nonna quando capiva che poteva soltanto limitarsi a prendere atto di una cosa insensata, del tutto incongruente rispetto ai suoi standard mentali. Una cosa o un comportamento che sarebbe stato da condannare “senza se e senza ma” se non fosse apparso così inspiegabilmente generalizzato, di massa. E quindi, in qualche modo, divenuto accettato o dichiarato accettabile.

Costuma così: che uno prenota in un albergo di lusso in Tunisia, quando arriva disfa i bagagli, scende in spiaggia - una spiaggia privata, ovviamente, con tutti i comfort - si stende sul lettino, e viene ammazzato a colpi di kalashnikov. E come lui altre 36 o 37 persone che, seguendo la medesima trafila mentale e organizzativa, avevano deciso di accettare l’offerta vantaggiosa di un tour operator, pensato che dopo l’assalto al museo del Bardo sarebbe dovuto passare più tempo prima di una nuova azione terroristica, corroborato la propria scelta con l’idea di contribuire - da turista - alla ripresa della democrazia nel Paese ove riposan l’ossa di Bettino Craxi ed è nata e cresciuta Afef, la moglie mussulmana (moderata) di Tronchetti Provera.

Costuma così. Che i parenti ti dicono di non andarci, che lì c’è la guerra, che loro non ci andrebbero nemmeno dipinti, nemmeno se li pagassero. E invece uno dice Ma vah!, la Tunisia non è la Libia (sì, però è vicina, come Ventimiglia alla Francia); in Tunisia c’è un governo democratico, ci sono anche gli spot alla televisione "Venite in Tunisia". E poi chi vuoi che se la prenda con uno sdraiato al sole sul lettino in una spiaggia privata, custodita, vigilata. Mica è l’Egitto la Tunisia. Guarda che non vado a Sharm el-Sheik. E l’altro ribadisce: Io - ti ripeto - non ci andrei. Ma è troppo tardi per cambiare programma. E così arrivano - lui e gli altri 36 o 37, più i feriti - si guardano intorno, si spalmano di crema, si sdraiano con negli occhi abbacinati dalla luce africana la silhouette della più invitante tra le figure dei dintorni, e non fanno nemmeno in tempo a rendersi conto di cosa stia succedendo che sono già morti.

Ieri, a sentire i resoconti dei sopravvissuti, c’era da rivedere da capo a fondo qualsiasi teoria giuridica o storiografica sul valore della testimonianza: si andava da un commando formato da più persone sbarcato da un gommone rosso, a un tale in infradito e ombrellone sotto il braccio (serviva a camuffare il kalashnikov) proveniente dal retro dell’albergo. Come si siano svolti realmente gli accadimenti sarà successivamente appurato dalle competenti autorità, ma l’insieme dei racconti forniva perfettamente l’idea della situazione mentale, del mood, dei partecipanti alla scena: l’apocalisse in bermuda e mitraglietta skorpion o quel che sia. Il non-sense divenuto, da forma teatrale d’avanguardia, realtà da hotel Imperial a Hammam-Sousse, zona turistica di Kentaoui.

Nel frattempo in Francia per poco non è saltato in aria un gasometro; in Kuwait c’è stata una strage in una moschea sciita; l’Isis si è ripreso Kobane con dentro tutti i curdi che c’erano tornati credendo che ormai fosse finita; sempre l’Isis ha rapito centinaia di bambini da qualche altra parte; in Somalia, a sud di Mogadiscio, i miliziani somali di al-Shabaab hanno ucciso più di 50 soldati del Burundi. Che ci facevano lì i burundini? facevano parte della missione dell'Unione Africana in Somalia (Amisom). E che ci fa l’Amisom in Somalia? Boh, nessuno l’ha ancora capito, nemmeno quelli che l’hanno pensata o che son lì a marciare col fucilino in spalla e uno stipendio, almeno quello, assicurato.

E poi l’evento più tragico di tutti, anche se in apparenza il meno sanguinoso: i rappresentanti degli stati europei a Bruxelles che discutono su quanti emigranti a me e quanti a te nei prossimi mesi e considerano un successo la modifica del Trattato di Dublino su chi debba tenersi quelli che varcano in maniera irregolare i confini Schengen. Recitava un celebre titolo degli anni Settanta: "Sta per venire la rivoluzione e non ho niente da mettermi" (di Umberto Simonetta, con Livia Cerini).

L’apocalisse è in corso e stiamo lì a pensare di rimandarli a casa, i non aventi diritto. Ma di che diritto stiamo parlando, quando qualcuno si sente, appunto, in diritto di sparare a caso nel mucchio solo che veda una pelle bianchiccia, di appendere alla rete di recinzione della fabbrica la testa del suo datore di lavoro prima di tentare di far esplodere la vicina centrale del gas (e per fortuna che anche fra i sabotatori ci sono gli incompetenti, i pirla), di entrare in una moschea, lui mussulmano, un venerdì di ramadan e far fuori quante più persone possibili?

L’apocalisse in senso tecnico, quella di cui sta scritto: «Sentirete poi parlare di guerre e di rumori di guerre. Guardate di non allarmarvi; è necessario che tutto questo avvenga, ma non è ancora la fine». Si riferisce alle guerre precedenti a quella attualmente in corso. E prosegue: «Si solleverà popolo contro popolo e regno contro regno; vi saranno carestie e terremoti in vari luoghi; ma tutto questo è solo l'inizio dei dolori». È l’accenno al nesso inevitabile fra conflitti non necessariamente armati (e non necessariamente fra Stati sovrani: gli iracheni di un tipo contro quelli di un altro) e catastrofe ecologica. Vedi enciclica Laudato si’. «Allora vi consegneranno ai supplizi e vi uccideranno, e sarete odiati da tutti i popoli a causa del mio nome». Facciamo un istante di raccoglimento, ciascuno decida in cuor suo per cosa preferisce piangere. «Sorgeranno molti falsi profeti e inganneranno molti; per il dilagare dell'iniquità, l'amore di molti si raffredderà». Come la chiama papa Francesco? Corruzione. Per altri: basta. Sono stufo. Stufo di tutto. Non solo di mafiacapitale. È lo stesso in ogni parte del mondo. Non ci vado più a votare. Preferisco andare in vacanza. In Tunisia, magari. Ma chi persevererà sino alla fine, sarà salvato. «Frattanto questo vangelo del regno sarà annunziato in tutto il mondo, perché ne sia resa testimonianza a tutte le genti; e allora verrà la fine».

E questo è il guaio vero: che con tutti i viaggi dei Papi il vangelo è già stato annunciato in tutto il mondo (resta qualche zona del Borneo sigillata al traffico marittimo e terrestre dalle lobbies degli antropologi). Non che tutti lo abbiano accolto, questo no. Ma il tempo della fine è già iniziato. Non si sa quando si concluderà né come dobbiamo immaginarci il botto finale (potrebbe durare secoli, l'apocalisse), ma l’assetto che la storia ha assunto dopo l’epoca delle battaglie in costume, dopo i decenni delle guerre combattute con gli eserciti in divisa e gli ambasciatori che si scambiavano le dichiarazioni, dopo le fantasione guerre preventive e quelle che non si chiamavano più guerre ma missioni di pace, dopo tutto questo l'assetto che la storia ha assunto ha fatto sì che chiunque, da Lione a Kuwait City, da Hammamet alla Striscia di Gaza, da Mogadiscio sud a Donetsk o Dnipropetrovsk, dal Burundi all’Afghanistan, vestito da soldato o travestito da bagnante, con le stellette o senza, complice la moglie e il figlio o senza nessun complice, chiunque, dicevamo, appartenente o meno alla Mara Salvatrucha o alla mafia cinese, con un machete, un coltello da cucina o una Beretta calibro 9mm, chiunque, chiunque di noi, debba sapere che, lasciate alle spalle l’epoca delle guerre con parate finali e trattati di pace (non ci saranno più quelle guerre, stiamone sicuri), è diventato attore - artefice o complice; vittima compiaciuta oppure innocente - della violenza e basta, della violenza senza nome e senza bandiere cui la terra assiste impotente. Perché, avrebbe detto mia nonna: oggi costuma così.

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