«Non chiuderò la porta di Danzica» L'uccisione del sindaco più amato

«Una luce per il paradiso, proprio lì»: è stato l’ultimo messaggio postato su Instagram, proprio pochi attimi prima di essere colpito dal suo aggressore. Nell'immagine si vede Pawel Adamowicz di spalle: davanti a lui un mare di luci dei cellulari accesi nella sera di Danzica. Non era un appuntamento politico, ma di solidarietà. Uno di quegli appuntamenti attorno ai quali il sindaco della città polacca aveva costruito un’identità che andava oltre la politica. Domenica sera, ad esempio, le persone erano state convocate per promuovere una raccolta fondi per i reparti di pediatria della città. Era un evento organizzato da un’associazione benefica laica, la Wosp, presieduta da un altro uomo sindaco della città baltica: Jezry Owsiak.
Adamowicz è morto a causa di quelle coltellate inferte da un ragazzo, Stefan Wilmont, 27 anni, appena uscito di prigione. Un giovane con problemi psichiatrici, è stato subito detto per tranquillizzare l’opinione pubblica. Ma certamente tutti hanno pensato che l’agguato sia figlio di quel clima di violenza verbale che segna la vita politica polacca dominata dal sovranismo anti putiniano e dal populismo anti migranti. Del resto il 9 gennaio lo stesso Adamowicz aveva annunciato di ricorrere all'appello contro l’archiviazione dell’inchiesta sui “certificati di morte politica” che gli erano stati mandati dal movimento della Gioventù pan-polacca.
Adamowicz era l’altra faccia di questa politica. Nessuno poteva metterlo in discussione, perché la popolarità nella sua città è documentata dai fatti. A 54 anni era arrivato al sesto mandato da sindaco e nell'ultima tornata elettorale aveva vinto ottenendo il 65 per cento dei consensi. «Sono un europeo, fiero di Danzica, città aperta, delle mie radici, non chiuderò mai la porta a chi crea, a chi lavora, a chi critica, a chi fugge da guerre»: era questa la sintesi della sua visione e del suo programma politico. Grazie a questo credo aveva accompagnato la sua città in un percorso difficile di transizione: era stato giovane testimone della rivolta dei cantieri quando Lech Walesa fondava il sindacato destinato a metter fine alla stagione della Polonia comunista. Adamowicz aveva seguito Walesa in quel percorso che ormai è uno dei capitoli più importanti della storia del '900. Ma poi aveva saputo anche guardare avanti, senza rinchiudersi nel sogno di una Polonia “identitaria”.
Ha lavorato per la modernizzazione della sua città. Ha investito nel porto facendolo diventare uno dei più importanti d’Europa. Non aveva mai avuto ambizioni di politica nazionale, ma aveva fatto di Danzica comunque una città faro per tutta la Polonia: a febbraio scorso, sfidando la contrarietà del governo sovranista di Lech Kascynski, aveva organizzato una conferenza su un tema di grande importanza e delicatezza: «The free european conference”. Era stato un momento di denuncia contro la manipolazione dei media, e contro la censura. Diceva, con grande preoccupazione, che il passo dalla violenza verbale mediatica a quella fisica il passo poteva essere breve. E purtroppo aveva ragione.