Oggi è San Carlo, un portento (diffuse pure il mais in Lombardia)
Fino a qualche anno fa oggi si festeggiava anche l’onomastico di Karol Woityla. Ma chi fu il santo di quel giorno, di questo giorno, cioè san Carlo Borromeo? Uno che ha fatto tutto da giovane. Morì infatti a 46 anni nel 1584 dopo aver - si può dire? - rimesso in piedi la Chiesa. Con l’aiuto dello Spirito Santo, naturalmente, nel quale aveva una totale fiducia.
Il personaggio è di quelli come ne nasce uno ogni secolo. Ma quando ce n’è bisogno, come ai tempi in cui operò quel rampollo di buonissima famiglia, Iddio ne manda anche altri. E così Carlo poté diventare amico di Ignazio di Loyola e di Filippo Neri, che lo sostennero nella sua idea di fondo, che potremmo sintetizzare così: “Con l’aria che tira non andremo molto lontano. Bisogna che la Sposa di Cristo torni santa e immacolata come Lui vuole che sia”. E così Carlo mise a disposizione di questo progetto tutte le forze che gli erano state date: beni personali, relazioni di famiglia, amicizie, intelligenza, energie, posizioni raggiunte. Ad ogni punto dell’elenco dovrebbe aggiungersi “fuori del comune”, ma non ce n’è bisogno, perché se tutto in lui non fosse stato eccezionale non saremmo qui a parlarne dopo quasi cinque secoli.
Non ci sarebbero il Collegio Borromeo di Pavia, il più antico fra quelli italiani ancora in attività. Carlo si laureò giovanissimo e allo studio si sarebbe dedicato se il Signore non lo avesse, grazie ad esso, chiamato altrove. E non ci sarebbe nemmeno il suo rivale storico cittadino, il Ghislieri, voluto da papa Pio V, che Carlo sponsorizzò in quella grande impresa che fu il Concilio di Trento. Non ci sarebbe il San Carlone di Arona, l’enorme statua che guarda il lago Maggiore, all’interno della quale una scala consente ai visitatori di salire fino alla testa. Carlo era nato nella Rocca della stessa località, che apparteneva alla famiglia. Bellissima rocca.
Senza l’opera del festeggiato di oggi i contadini lombardi non avrebbero chiamato per secoli Carlún il mais, la cui diffusione fu opera di questo grande vescovo. Non ci sarebbe la chiesa di san Vittore, a Milano, la prima al mondo costruita secondo le regole architettoniche stabilite dal Concilio. A piedi, da casa Borromeo, dista un quarto d’ora e fino a qualche anno fa non era difficile notare, fra i fedeli della messa serale, un giovane - alto, magro, barba rasata ma intuibile come nerissima, nasone - identico ai ritratti del santo. Forse un discendente, o forse solo uno inviato lì dal Signore perché i fedeli si distraessero e non ascoltassero la predica, spesso al limite dell’eresia.
Non avremmo, nel pavimento del duomo di Milano, proprio davanti agli scalini che permettono l’accesso all’altare dalla navata centrale, quella scritta “humilitas” incisa nella lastra che copre la tomba dell’altro patrono di Milano, dopo sant’Ambrogio. La volle lui, per sentire - disse - il piede dei celebranti sopra di sé. Segno di grande umiltà, appunto. Ma il luogo in cui è collocata dice anche che non desiderava propriamente essere dimenticato. E dunque mettiamola così: non voleva che il suo esempio di umiltà fosse dimenticato. Lo dice anche la liturgia della messa, dopo l’elevazione: Unde et memores, Domine, non servi tui, sed et plebs tua sancta… Memori della tua benevolenza, Signore, noi, che siamo tuoi servi ma nello stesso tempo il tuo popolo santo … È la formula perfetta della condizione della Chiesa e dei cristiani: siamo niente, non saremmo nemmeno in grado di esercitare la nostra libertà se il Signore non ci avesse riscattati dalle mani del nemico mediante il suo sangue, e resi santi. Santi perché suoi.
E non ci sarebbe - in mancanza di san Carlo - soprattutto la speranza di poter essere gradito al Signore per chi è nato ricco in una grande e potente famiglia. A dodici anni questo ragazzino fu infatti messo a capo di un’abbazia benedettina di Arona che rendeva 2000 scudi all’anno. Come fosse stato fatto amministratore delegato, che so?, della Mondadori. Preso atto dell’incarico decise che quegli scudi li avrebbe destinati ai poveri. Solo chi ha tanto può donare tanto. A chi non ha, dice la parabola dei talenti, sarà tolto anche quello che ha. Dunque non vantatevi di esser nati poveri: diventatelo. Come san Francesco e, appunto, il santo di oggi.
A ventidue anni, visto il perdurare di certe inclinazioni, gli fu conferita la berretta cardinalizia. Caso evidente di nepotismo da parte dello zio materno, papa Pio IV, un Medici. Avrebbe potuto diventare uno dei tanti principi della Chiesa che passavano il tempo in intrighi e sollazzi. Non lo fece. Anzi, si dedicò a mettere in piedi quel Concilio che per almeno tre secoli avrebbe costituito l’ossatura portante del cattolicesimo. Non lo indisse, non lo concluse: ne fu semplicemente l’anima.
Fu fatto vescovo di Milano senza obbligo di residenza - perché il papa, che lo chiamava “il mio occhio destro”, preferiva tenerselo accanto - e invece salì al nord e si dedicò alla cura del suo popolo e dei suoi preti. Fino allo sfinimento. Se esiste il seminario come istituzione lo dobbiamo a lui. I preti che ne vengono fuori non sono tutti santi e degni della loro vocazione? Immaginatevi com’erano prima, quando ciascuno si formava come poteva, seguendo quel che immaginava di dover seguire. Ha fatto quel che poteva, san Carlo. Ne è nato quel che Dio desiderava.