«Mi pagano per fare il lavoro dei miei sogni»

Paolo Genovese, il regista per caso non è più un perfetto sconosciuto

Paolo Genovese, il regista per caso non è più un perfetto sconosciuto
Pubblicato:
Aggiornato:

Davanti al giornalista de Il Fatto Quotidiano, non ha problemi ad ammetterlo: «Non voglio fare l’artista, ma stavolta avevo proprio urgenza di mettere in scena questa storia». A parlare è Paolo Genovese, il regista italiano del momento: la sua ultima fatica, quella che aveva «proprio l’urgenza» di realizzare, è Perfetti sconosciuti, 20 milioni di euro d’incassi e una tanto invidiabile quanto inattesa conquista, cioè Robert De Niro, che dopo aver visto il film ha voluto inserirlo nella lista delle pellicole che parteciperanno al suo Tribeca Film Festival, in calendario dal 13 al 24 aprile a New York. Una concatenazione felice di eventi piovuta addosso a Genovese, cantastorie moderno della vita di tutti i giorni, mediaticamente lontano da altri maestri della macchina da presa italiana come Moretti o Sorrentino, ritenuti i grandi intellettuali del nostro cinema. E lui gongola, senza nascondere la sorpresa: «È stato tutto inatteso. Gli spettatori mi scrivono lettere lunghissime. Non mi dicono semplicemente è bello o fa schifo, ma si aprono. Per qualche strana alchimia condividono una paura, una minaccia, un senso di colpa, il peso di una bugia».

 

 

Più che un film, una psicanalisi collettiva. Perfetti sconosciuti è senza dubbio il caso cinematografico italiano del 2016 (lasciando stare Quo vado? di Checco Zalone, che in termini d’incassi gioca tutta un’altra partita). Sette amici, tre coppie e un single, attorno al tavolo. Vite di tutti i giorni dietro una maschera, fatta di segreti e ipocrisie. Vite nascoste nei chip dei loro (che poi sono i nostri) smartphone. E così un gioco innocente, ovvero mettere in pubblica piazza tutto ciò che si nasconde in quelle scatole nere dell’esistenza moderna, si trasforma in un gioco al massacro emozionale, tra tradimenti, menzogne e identità virtuali. Un ritratto sincero (pure se spesso impietoso) del nostro presente, senza limitarsi agli stereotipi banali da telegiornale. Un equilibrio delicatissimo trovato meravigliosamente da Genovese e il brillante cast del film, che trasforma una serata al cinema in una sorta di seduta di psicanalisi collettiva. «La gente entra in sala pensando di ridere e poi esce turbata – spiega il regista –. Non volevo rassicurare nessuno e ho cambiato la conclusione strada facendo. Nella sceneggiatura il film finiva male, ma, mi pareva, non abbastanza male. Volevo un finale spietato, drammatico e senza speranza che lasciasse la stessa amarezza che guardando un thriller proviamo quando l’assassino la fa franca». Resta una commedia, che non vuol dire comicità. Si ride, ma anche di noi e della realtà.

Genovese è sincero quando dice che non si aspettava una reazione del genere da parte del pubblico. Anche perché Perfetti sconosciuti è, per certi versi, il suo film più difficile: «Metterlo in piedi è stato faticoso. Storie intorno al tavolo di una cena erano state già raccontate e l’assunto non brillava per originalità. In un film tutto girato al chiuso che non controlli fino in fondo, non sai dove tagliare e in cui i piani d’ascolto sono più importanti della recitazione, il rischio di realizzare una schifezza era alto». Alla fine ne è valsa la pena. Dopo tante commedie riuscite solo a metà (Questa notte è ancora nostra, Tutta colpa di Freud e Sei mai stata sulla Luna?), l’ultima pellicola è certamente la meglio riuscita, ma anche la più diversa e particolare. Una sorpresa: «Ho capito che le sorprese servono. Ti danno un pizzico al culo. Ti fanno dire: “Si può fare qualcosa di diverso”. Di film su commissione, stando attento a non derogare dai cosiddetti gusti del pubblico, ne ho fatti anch’io. Ed è un errore. i fratelli Taviani dicono che non bisogna sempre girare il film che piace al pubblico, ma anche quello che il pubblico ancora non sa se potrebbe piacergli. Hanno ragione».

 

perfetti_sconosciuti_marco_giallini_anna_foglietta_valerio_mastandrea_paolo_genovese_kasia_smutniak_giuseppe_battiston_edoardo_leo_alba_rohrwacher_jpg_1003x0_crop_q85

[Paolo Genovese (cuffie al collo) con il cast di Perfetti sconosciuti]

 

Paolo Genovese, le origini. In realtà Paolo Genovese non è nuovo nel mondo dei record d’incassi al botteghino. Immaturi e Immaturi – Il viaggio (soggetto che ora diventerà anche una serie tv con sceneggiatura dello stesso Genovese e regia di Rolando Ravello) furono due film molto apprezzati dal pubblico, merito ancora una volta di un’ottima sinergia tra il regista e il cast di attori. Ma Perfetti sconosciuti è, per certi versi, un’evoluzione rispetto ai precedenti film firmati da Genovese. Il quale, nonostante abbia inanellato negli ultimi 5 anni una serie di buoni risultati cinematografici, a differenza di altri suoi colleghi, dai più apprezzati Salvatores, Virzì e Muccino, ai più “pop” Fausto Brizzi e Matteo Garrone, resta per lo più sconosciuto al grande pubblico: «E mi sta benissimo – dice lui –. Voglio che siano noti i miei film, non io. Il sogno è che qualcuno che non sa chi sei vada a vederli perché riconosce il tuo tratto. Per formarsi un proprio pubblico ci vogliono anni. È la mia massima ambizione e, penso, quella di quasi tutti i registi del mondo». Un’assenza di protagonismo che viene dalla consapevolezza di essere riuscito a realizzare il proprio sogno quando, forse, non ci credeva più. Se la passione per il cinema c’era sempre stata («A 14 anni ho comprato un telecamerone e una centralina di montaggio. Riprendevo qualsiasi cosa e mi accorsi che montando le riprese di una giornata al mare potevo rendere la stessa allegra o malinconica a seconda dei suoni o della scelta delle immagini. Fu un’illuminazione. L’idea di poter manipolare la vita e il passato era molto affascinante»), in realtà la sua strada lavorativa fu ben lontana dalla macchina da presa: laura in Economia e Commercio, una tesi sul marketing e un posto di lavoro da Deloitte, che per 18 mesi lo mandò in Albania. Tornato in Italia si licenziò è passò alla McCann Erickson, una grande agenzia di pubblicità. Dopo due giorni dall’assunzione, lo mandarono sul set per capire come funziona quel mondo: «Vado, vedo il carrello, le luci, gli elettricisti, la macchina da presa e rimango folgorato».

 

paolo genovese riprende

 

A sorpresa, i primi a credere in lui furono proprio quelli della McCann, che si resero disponibili a finanziare i primi lavori di Genovese regista, come il cortometraggio Incantesimo napoletano, scritto e diretto con il collega e amico Luca Miniero, conosciuto proprio in McCann. Ai primi del 2000 decisero di provarci e cominciarono a realizzare spot: «La pubblicità mi ha insegnato il dono della sintesi e la tecnica. Con il tempo ho capito che se la sintesi è imprescindibile, la tecnica non è fondamentale». Dopo diverse pubblicità, qualche premio nel settore e tre pellicole firmate insieme, Genovese e Miniero si salutarono e seguirono le loro strade. E Genovese oggi è contento. Anzi, di più: «Mi sembra incredibile che mi paghino bene per fare il lavoro che ho sempre sognato di fare».

Seguici sui nostri canali