Cent'anni dalla morte, oggi

Péguy, il poeta che ha insegnato che anche Dio si stupisce di noi

Péguy, il poeta che ha insegnato che anche Dio si stupisce di noi
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Charles Péguy, il figlio della signora che impagliava le sedie: Orléans, 7 gennaio 1873 - Villeroy, 5 settembre 1914.

Ci sono due cose, di Péguy, che contano: il lavoro della madre (il padre morì quando lui era ancora piccolissimo) e il ritmo della sua poesia.

Impagliare sedie tutto il giorno e per tutti i giorni della vita o è una preghiera o dopo un po’ si sclera. La mamma di Péguy - uno dei poeti francesi più grandi del XX secolo, anche a detta di chi non lo ha amato e continua a non amarlo - doveva essere del primo tipo. Dicono che l’intelligenza ci viene dalle madri: se è così la signora Péguy ha regalato al figlio la nenia, il ritmo ancestrale che ha fatto grande il cuore di infiniti bambini. Sedia dopo sedia. Paglia dopo paglia. Il figlio se l’è assunto, questo infinito, inesauribile procedere e l’ha trasmesso alla sua poesia, che è come il canto sommesso del povero inginocchiato al lato della strada, del misero sulla terra di un suq nordafricano.

Ha vissuto molto intensamente e pensato molto e molto bene, Charles Péguy. Ma è la durata del suo cantare che ci ammalia, il suo dire e ridire e riprendere ancora il già detto e ricominciare da capo e continuare ancora, quasi una danza da derviscio, che poco a poco ci trasporta dove le parole non potrebbero mai arrivare, senza quel canto, quell’infinito tornare su se stesso per aprirsi poi come una corolla a ricevere il cielo. Ha visto Dio, Péguy, e lo ha trovato simile a sé, soprattutto nella sua capacità di ragionare su questa strana cosa che è l’uomo che pure ha creato, e di stupirsi non della bellezza, ma dell’impossibile che nell’uomo accade. Péguy ci ha insegnato che anche a Dio capita di stupirsi di noi, di certe cose impossibili di cui siamo capaci.

Oggi è il centenario della sua morte, avvenuta sul campo il giorno precedente l’inizio della battaglia della Marna: un colpo dritto in fronte. Il suo nome è il primo in alto a destra nel monumento ai caduti di Villeroy (Lieuth. Ch. Péguy). Ma il monumento che vorremmo fargli noi lo prendiamo da un testo molto amato, Il Portico della Seconda Virtù. Non è bello come quello ufficiale, però glielo dedichiamo col cuore, per tutto il bene che ci ha fatto nei momenti di buio. La seconda virtù è, infatti, la speranza. Compresa quella di riuscire a tradurre un testo come questo.

Dice Dio: la fede, d’accordo. Ma non mi stupisce. Perché per non vedermi davvero, quei ragazzi - cioè noi - dovrebbero proprio esser ciechi.

La carità - è sempre Dio che parla - anche lei non mi stupisce. Non è una cosa che sorprenda. Che uno veda un altro nel bisogno e senta di doverlo aiutare, in fondo è comprensibile.

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Ma la speranza, dice Dio, ecco cosa mi sorprende.
Io stesso.
Questo è sorprendente

Che questi poveri ragazzi vedano come tutto questo sta
succedendo e che credano che domani andrà meglio.
Che questi poveri ragazzi vedano come questo sta succedendo adesso
e che credano che andrà meglio domani mattina.
Questo è sorprendente, ed è davvero la più grande
meraviglia della nostra grazia.
E ne sono sorpreso io stesso.
E sì, la mia grazia deve possedere davvero una forza incredibile.
E che sgorghi da una sorgente e come un fiume inesauribile.
Dalla prima volta che è sgorgata e da quando
continua a sgorgare, sempre.
Nella mia creazione naturale e soprannaturale.
Nella mia creazione spirituale e carnale e ancora spirituale.
Nella mia creazione eterna e temporale e ancora eterna.
Mortale e immortale.

E quella volta, oh quella volta, dopo quella volta
che essa è sgorgata, come un fiume di sangue,
dal fianco trafitto di mio figlio.
Lei che non c’è bisogno che siano la mia grazia
e la forza della mia grazia
perché questa piccola speranza,
che traballa al soffio del peccato,
che trema a ogni soffio di vento,
ansiosa al minimo soffio,
sia così sempre se stessa, rimanga così fedele,
così diritta, così pura; e anche così invincibile,
e immortale,
e impossibile da spegnere;
come la piccola fiamma
del tabernacolo.
Che brucia eternamente nella candela fedele.
Una fiamma tremolante ha attraversato lo spessore
dei mondi.
Una fiamma vacillante ha attraversato lo spessore
dei tempi.
Una fiamma ansiosa ha traversato lo spessore
delle notti.

Da quella prima volta che la mia grazia è sgorgata
nella creazione del mondo.
Da quando per sempre la mia grazia sgorga
per la conservazione del mondo.
Da quella volta in cui il sangue di mio figlio è sgorgato
per la salvezza del mondo.
Una fiamma impossibile da raggiungere,
impossibile da spegnere al soffio della morte.

Ciò che mi sorprende, dice Dio, è la speranza.
E non ne vengo a capo.
Questa piccola speranza che non sembra affatto un niente.
Questa bambina speranza.
Immortale.

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