Perché il male è più forte del bene? Alt, la domanda vera è un'altra

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L’altro giorno, dopo i fatti di Sousse, sulla panchina davanti a zooplanet un tale chiedeva all’amico (sintetizzo traducendo dal genovese):  «Ma com’è che un demente con un mitra in mano riesce a essere così efficace nel far del male (tanto da mettere in ginocchio un intero Paese), e invece uno che ce la mette tutta a far le cose bene, o a cercare di fare del bene, raggiunge - nel migliore dei casi - risultati così modesti da risultare addirittura scoraggianti?».

I filosofi si aggirano perfino in via Trieste, mi è venuto da pensare. E a botta calda mi sono risposto - continuando a guardare la vetrina, ufficialmente non avendo sentito niente - che forse non c’è un perché. Forse la cosa andrebbe presa come un dato elementare di cui si può dire soltanto: è così. È così sempre. Ci sono volute quattro generazioni - cinque dal nonno di mia moglie ai nostri nipoti - perché le magnolie di Villa Romilda venissero su così grandi, e basterebbe un fulmine o un parassita a seccarle. O qualche giorno d’incuria in presenza di temperature eccessive. Aveva più di mille anni la tomba del profeta Giona a Ninive - e non l’avranno tirata su in un giorno - e nel giro di poche ore, il tempo di collocare il tritolo, ne sono rimaste soltanto le pietre. Cento anni per costruire, mille per vivere, un’ora per distruggere.

Poi mi veniva in mente la matematica, in cui per passare da zero - o da un numero molto prossimo allo zero - all’unità (a 1) bisogna ricorrere all’infinito, mentre per passare da, poniamo, 200 a 0 basta togliere 200. La presenza dello 0 distrugge tutto: nessun numero - per grande che sia - moltiplicato per 0 riesce a schiodarsi da 0. Nella metafora: perché il bene cresca ci vuole almeno una briciola di bene (0, 000000...1, il grano di senape) da cui partire e un’energia prossima all’infinito per farlo decollare; perché una cosa che c’è ritorni al suo nulla basta una quantità di energia pari, o anche inferiore, a quella che la tiene insieme. Vabbè: metafore che lasciano il tempo che trovano. Esemplificano, non spiegano.

Comunque è vero: per far crescere un fiore ci vuole una quantità di cure e di energie, di tempo e di stelle (niente sole, niente fiori) nemmeno comparabile a quella dello strappo sbadato che lo distrugge. Dunque, nessuna risposta alla domanda: perché è così. È così, è nella struttura stessa delle cose. Nelle più remote regioni dell’universo, nel sole che fa germogliare le piante e nell’acqua che le bagna, nella matematica di tutti i giorni.

Poi però - è dal giorno dopo la strage di Sousse che ripenso ai due della panchina - mi son detto che forse la domanda è posta male (si fa sempre così, quando non si trova una risposta). Nel senso che forse quello che si era portato il kalashnikov in spiaggia era convinto di fare il bene, non il male. E dunque anche a fare il bene, almeno in questo caso, ci è voluto poco: pochi attimi per passare dalla vita alla propria morte (il sacrificio di sé), gli stessi occorsi per cancellare dalla faccia del mondo un pugno di infedeli (un servizio reso ad Allah il misericordioso - nella mente dell’attentatore). Come a dire che il bene e il male tante volte si scambiano di posto e di fatica.

Anche lo shahīd di Sousse si sarà detto in cuor suo, disponendosi all’azione: «Quanta fatica per riuscire a morire per l’Onnipotente!». Tanto è vero che ha avuto bisogno di imbottirsi di droga (di un surplus di energia), per riuscire a portare a termine la sua missione e raggiungere il cielo dei giusti. E per ottenere cosa, alla fine (lo dico mettendomi nella sua testa)? Fai un gran casino, ne ammazzi un po’, ma poi restano tutti gli altri. Milioni e milioni di bastardi infedeli con le loro donne in bikini e i loro maiali. La stessa cosa che obiettavano a Madre Teresa: per uno che ne curi, altri milioni continuano a morire. («La stessa cosa» da un punto di vista logico, ovviamente. Come se il bene - comunque lo si rigiri, da dritto o da storto - comportasse di necessità l’idea della goccia nell’oceano).

La vecchia del piano di sotto ha pensato per anni che fosse bene tenere i cassetti e la casa in un ordine maniacale. Che fosse giusto e necessario (che fosse il loro bene) presentare i nipoti ai coinquilini recitando ogni volta la litania infinita della loro - inesistente - cattiveria. E forse lo è stato, un bene, per le casse degli psichiatri che hanno poi avuto in cura per anni i poverini (lei viveva ospite della famiglia del figlio) e per la santità della nuora. E anche lei, la vecchia, si sarà detta tante volte: «Quanta fatica per tirarli su dritti! che poi basta che al Carlo gli giri storta e guardi qui come mi ha lasciato il tavolo di cucina» (la tazza del latte col cucchiaino dentro, nemmeno appoggiato sul marmo). Ha scritto Anna Freud, la figlia di tanto padre, che la cosa più difficile per uno psicoterapeuta è non mollar lì tutto quando, dopo anni d’intenso lavoro con un bambino (lei si occupava soprattutto di bambini), quando ti sembra finalmente di essere riuscito a mettere le cose sui binari giusti, ti accorgi che basta una scenata fuori luogo della madre o del padre per far precipitare nuovamente tutto nel caos primigenio.

Sulla scia di queste considerazioni mi sono trovato a pensare che non è il bene a costar caro (o, al contrario, non è il male a fare sfracelli a costo (quasi) zero). A costare, a metterci a rischio disperazione - o scoraggiamento - è il fatto stesso di voler perseguire un progetto, che può essere male o bene a seconda dei punti di vista. Un progetto, infatti, si pone necessariamente contro la corrente delle cose che tenderebbero, di per sé, ad andare da un’altra parte. Ogni progetto implica l’energia necessaria ad opporsi ai flussi incrociati degli avvenimenti: non lasciare sguarnito uno spiazzo erboso (perché non ci facciamo su un mercato, o un campo di calcio?), non lasciare che l’immondizia vada in suppurazione, evitare che un torrente si porti via le rive, o il mare una fetta larga di litorale. Il progetto ha la propria radice ultima nella considerazione della realtà come insufficienza, come perpetua o occasionale inadeguatezza, come serie di eventi ostili: come - portando la cosa all’estremo - male. Il contrario del progetto potrebbe allora essere la disposizione a riconoscere la realtà come bene non bisognoso d’altro che di quel riconoscimento, o riconoscenza. Meglio ancora: gratitudine, ossia letizia per qualcosa che è lì - o che ci è stata data - gratis. Et amore Dei, si diceva un tempo.

Stamani ho fatto un po’ fatica a entrare in acqua per fare il bagno. Mi ci vuole sempre qualche attimo per pensare di immergermi nell’iridescenza superficiale degli oli solari idrosolubili, e qualche minuto - da quando giungo in spiaggia, nell’ardore schiacciante del sole - per acclimatarmi, perché io vivrei all’ombra. Mia moglie, che al contrario di me non vede l’ora di tuffarsi e di nuotare, se l’è presa a male. Così ha ritirato fuori l’idea che la casa qui al mare è una maledizione, che io odio questo posto, che l’anno prossimo dovremo prenderci due settimane per andare a Santa Maria di Leuca, che lei sa benissimo che se non fosse per amor suo io qui non ci metterei piede né ora né mai.

Una cosa giusta l’ha detta - e dunque la sa: che lo faccio per lei, per amore suo, di venir qui, nella casa dei suoi. Quel che sembra non sapere - che non mi riconosce - è che io sono contento di essere qui e di esserci per lei, anche se mi ci vuole qualche tempo per decidermi a entrare in acqua quando mi gira la testa per la luce. Lei - ultimamente - non mi crede quando le dico che non vorrei affatto andare in Sardegna o in nessun altro posto a rischio di far derivare dalla bellezza del luogo la felicità che mi deriva da lei e, di conseguenza, da me stesso con lei. Non ho bisogno di fare alcun progetto alternativo al qui e ora: questo è il mio bene. Cosa che le risulterebbe certamente più credibile e visibile se - appartenendo lei alla tipologia psicologica dei dirigenti di grado elevato (io faccio così, quindi anche gli altri facciano così: son qui apposta) - la seguissi senza esitazione alcuna nella sua natura profonda di spigola o branzino. Perché il bene è la sintonia immediata col mondo; il male nasce, invece, nel momento in cui mi fanno obiezione la qualità dell’acqua, lo sbalzo di temperatura, gli oli e le creme sulla superficie delle onde. Bonum ex integra causa; malum a quocumque defectu.

Fare, realizzare, il bene - secondo me - consiste dunque essenzialmente nel gioire del mondo com’è, e nel farsi riconoscere quale portatore sano di questa gioia o, quando è il caso, del dolore del mondo com’è. Mi pare che possa significare questo l’invito a riconoscere la giustizia di Dio operante fra di noi. Tanto è vero che qualcuno ha scritto che è il Signore Iddio (cioè la realtà riconosciuta come grazia, come dono) che «dà forza allo stanco e moltiplica il vigore allo spossato» e aggiunge, quel medesimo, che anche i giovani si stancano (è sempre stato così, allora! non sono solo quelli di oggi a risultare inoppugnabilmente stanchi) quando è chiesto loro di fare qualcosa, e i vecchietti si fanno fregare dall’acqua oleosa e dal sole a picco, «ma quanti sperano nel Signore [ossia quanti hanno imparato nel corso della vita a riconoscere che va bene così] mettono ali come aquile, corrono senza affannarsi, camminano senza stancarsi». (Anche se ho sempre pensato che pure le aquile faranno la loro fatica a volare. Solo che le pennute, quando sono stanche, tornano a casa o si posano da qualche parte: non c’è nessuno che le obblighi a restare per l’aria perché lui ha deciso così o perché mancano ancora due ore alla fine del turno. Dunque: «Mettere le ali come le aquile» significa riuscire a fare quel che c’è da fare senza voler eccedere perseguendo chi sa mai quale record di durata o di permanenza in volo. O di ordine nei cassetti con doppio strato di carta velina contro la polvere. Una fatica senza sforzo, il bene senza l’esitazione del male. Planando nell’aria che ci sostiene).

Essere obbediente fino alla morte a questo riconoscimento grato e testimoniarlo nel proprio volto. Credo che di niente altro abbia altrettanto bisogno il mondo. Che nessun bene sia più grande di questo.

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