Uomo deciso e coraggioso

Piersanti Mattarella, il fratello che sfidò la mafia a viso aperto

Piersanti Mattarella, il fratello che sfidò la mafia a viso aperto
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In questi giorni, sulle prime pagine di tutti i giornali italiani si legge un solo nome, quello di Sergio Mattarella: è infatti il candidato favorito alla presidenza della Repubblica italiana. La prima votazione, come da routines, è stata confusa e caotica ma il suo nome è già apparso su molte schede. Insomma, pare essere solo questione di tempo. Giovedì abbiamo proposto una dettagliata ricostruzione della sua carriera e del suo operato politico. Ripercorrendo le tappe salienti della sua storia è stato impossibile non citare il nome del fratello Piersanti che fu ucciso il 6 gennaio 1980, vittima della mafia siciliana che tanto cercava di combattere. Abbiamo allora pensato di proporvi un breve ritratto anche di quest’ultimo.

Piersanti Mattarella nasce a Castellammare del Golfo il 24 maggio 1935. Assistente ordinario di diritto privato all'Università di Palermo si dedicò fin da giovanissimo al mondo della politica scendendo in campo con la Democrazia Cristiana. Negli anni '60 divenne consigliere comunale di Palermo, fino a che nel 1967 fu nominato deputato dell’Assemblea regionale siciliana, nel collegio di Palermo. Dal 1971 al 1978 fu assessore regionale alla Presidenza e nel ’78 fino al giorno della sua morte ricoprì la carica di Presidente della Regione Sicilia.

 

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Piersanti era un uomo deciso, sapeva quello che voleva. Tra le sue priorità c’era la lotta alla mafia: il nobile tentativo di sconfiggere quel morbo che imperversava e annientava il quieto vivere della bella isola italiana. Voleva che la Sicilia comparisse tra le pagine dei giornali non più al fianco di sostantivi come tangenti, pizzo, riscatti e associazione a delinquere ma per la sua storia millenarie e le tante bellezze che ancor oggi custodisce. Il primo gesto eclatante in questa direzione fu alla Conferenza regionale dell'agricoltura svoltasi nel febbraio del 1979. Il deputato Pio La Torre, responsabile nazionale dell'ufficio agrario, attaccò l’operato dell'Assessorato dell'agricoltura, additandolo come centro della corruzione regionale, e accusando lo stesso assessore di aver stretto numerosi accordi con la mafia siciliana. Mentre tutti attendevano che il presidente della Regione difendesse il proprio assessore, Mattarella, invece, riconobbe pienamente la necessità di correttezza e legalità nella gestione dei contributi agricoli regionali. Fu un gesto pieno di coraggio che stupì l’opinione pubblica e scosse quegli ambienti mafiosi che mai e poi mai avrebbero immaginato una dichiarazione del genere.

Sotto la sua presidenza, Piersanti Mattarella diede inizio a un programma di interventi volti a colpire gli interessi costituiti e il potere mafioso. In quel piano si leggeva una nuova legge urbanistica, una normativa di assoluta trasparenza per gli appalti, la rotazione dei tecnici collaudatori delle opere pubbliche e l’attivazione dei poteri ispettivi della Regione, oltre che la nomina di commissari ad acta per sopperire alle inadempienze delle amministrazioni comunali. Ma queste novità, pur riscuotendo grande ammirazione tra l’opinione pubblica, non furono accolte con lo stesso apprezzamento da tutti. Sta di fatto che in breve tempo iniziarono ad essere recapitate a Mattarella alcune lettere dai toni minacciosi e inquietanti.

 

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Il 6 gennaio 1980, appena entrato in auto insieme alla moglie e i due figli, un killer si avvicinò al suo finestrino e lo uccise a colpi di pistola. Quella mattina Mattarella non era protetto dalla sua scorta perché nei giorni di festa voleva che i suoi uomini stessero in famiglia con i propri cari. «Ho visto il killer che si avvicinava alla nostra macchina. Ho subito capito che stava per sparare e istintivamente ho messo tutte e due le mani sulla testa di Santi, cercando di proteggerlo, e il mio gesto ha bloccato l’assassino ma solo per un attimo che a me è sembrato lungo come un’ora. Ci siamo fissati negli occhi ed io ho colto l’esitazione di quell’uomo che, forse, stava per uccidere anche me; ma questo non era nel conto. Poi, passata l’indecisione, il killer ha cominciato a sparare». Sono state queste le parole della moglie Irma, ricordando i tragici fatti di quella mattina.

Inizialmente si pensò ad un attentato terroristico, dato che poche ore dopo fu rivendicato da un gruppo neo-fascista. Ma la dinamica dell’assassinio non lasciava alcun dubbio: l’agguato alla vittima mentre era in macchina, la scarica di colpi e la fuga senza lasciare alcun tipo di traccia era un canone proprio degli attentati in stile mafioso. Iniziò subito un processo e Francesco Marino Mannoia, un collaboratore di giustizia, rivelò che Giulio Andreotti era consapevole dell'insofferenza della mafia per la condotta di Mattarella, ma non avvertì né l'interessato né la magistratura. Alla fine, nel 1995, furono condannati all’ergastolo come mandanti dell’omicidio i boss mafiosi di Cosa nostra Salvatore Riina, Michele Greco, Bernardo Brusca, Bernardo Provenzano, Giuseppe Calò, Francesco Madonia e Nenè Geraci.

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