Pupi Avati: Dio faccia giustizia
Un’avventura che comincia agli inizi degli anni sessanta. Lui, Giuseppe Avati detto Pupi è poco più che ventenne e suona bene il clarinetto: far parte di un complesso è il suo sogno che si avvera con l’ingresso nel gruppo Doctor Dixie Jazz Band. Ma dopo qualche anno l’arrivo nell’ensemble musicale di Lucio Dalla scombina le carte e Pupi cambia totalmente strada andando a fare per quattro anni il rappresentante di una nota ditta di surgelati. Un periodo infernale, come lui stesso confessa, che si chiude in modo fortunato grazie all’incontro con un uomo d’affari pronto a produrre il suo primo film, dal titolo "Balsamus l’uomo di Satana": un lavoro "orgogliosamente provinciale", per usare le sue stesse parole. Fellini lo folgora, ma l’impronta di Pupi Avati, forse il più versatile dei nostri registi, si manifesta in pellicole sempre di grande impatto stilistico e dal disegno psicologico profondo. Memorabili "Regalo di Natale", "Una gita scolastica" e "L’Arcano Incantatore", a riprova di una trasversalità espressiva incredibile e di una voglia mai soddisfatta di sorprendersi per sorprendere. Cinema, televisione e anche un libro autobiografico "Sotto le stelle di un film" per segnare una carriera stellare che culmina adesso con la presidenza della Fondazione Federico Fellini, quasi a consacrazione di una scelta perfetta e a compimento di un ideale "mondo rotondo".
Pupi Avati, che significato hanno per lei i valori estetici?
«Per una persona che sta per compiere settantasei anni e osserva come il corpo tradisca sempre più l’età anagrafica è un argomento difficile. Rimane la mente però: sempre in grado di progettare un immaginario apprezzabile».
Campagna, libri, il drink preferito... a quali di questi piaceri varrebbe la pena rinunciare?
«Ai libri mai. Alla campagna forse e ai drink, a malincuore. Io sono uno che apprezza tutto della vita, ma capace al momento opportuno anche di rinunce. Piuttosto questo mi angoscia: i miei libri, le migliaia di libri, molti dei quali devo ancora leggere, dove andranno a finire?».
Nei suoi film c'è sempre la cura del dettaglio estetico e si respira un'eleganza in genere poco frequentata…
«Forse il fatto di essere nato in una famiglia col padre collezionista e il nonno antiquario può significare qualcosa. Grazie a simili scelte abbiamo pagato le bollette del gas e della luce: la bellezza, anche in questo senso, paga. Oggi si sono ribaltati i canoni, così il bello è divenuto decadente e l’orrido è acclamato come meraviglioso».
Che genere di rapporto ha con i viaggi?
«Quelli più pericolosi e meno rassicuranti mi intrigano irresistibilmente. Suspense e attesa sono ingredienti irrinunciabili di un viaggio ideale: fantastico andare a prendere un premio in un posto sperduto dopo aver quasi rischiato la vita».
Si ritiene un nostalgico, uno di quelli che amano guardare le foto del passato?
«Non guardo le foto, ma rivendico il diritto di essere un nostalgico e diffido di coloro che hanno bandito perfino il termine. Bisogna essere malati di mente per non amare la nostalgia sulla quale si fonda la poesia del mondo».
In che modo ci si può coccolare e forse viziarsi un po'?
«Volendosi bene e pretendendo molto da se stessi. Da un bel pezzo si vale per quello che si ha, per questo sono scappato da Bologna per andare a Roma dove si è apprezzati per quello che si è e si fa».
Di cosa sente il bisogno alla sua età con la sua esperienza?
«Di giustizia, di un Dio vendicativo che metta a posto le cose, perché ognuno di noi è vittima di qualcuno».
La spiritualità è un mezzo per vivere meglio e dilatare gli orizzonti esistenziali?
«Sento la necessità di credere in Dio: lo faccio per me stesso e per chi vive nel dolore, così prego Dio di esistere e mi auguro, un istante prima di chiudere gli occhi, di vedere esaudito il mio "perché"».