La Tanzania, 4 tumori e 126 figli Ovvero, il sorriso di padre Fulgenzio

Gli hanno diagnosticato il quarto tumore: «È il secondo che mi aggredisce il fegato e di fegato me ne è rimasto solo un pezzetto. C’è la cirrosi e dentro c’è anche lui. Però io lo lascio tranquillo perché tanto cresce poco». Fulgenzio Cortesi, 79 anni fra un mese, nato a Castel Rozzone e residente a Mbveni in Tanzania, padre passionista ma soprattutto padre di 126 figli, è un personaggio incredibile. A 65 anni ha pensato di fondare una città, il “Villaggio della gioia”, per accogliere bambini rimasti orfani a causa di aids, povertà e miseria, e quattordici anni dopo sta già allargandone i confini: ha acquistato altro terreno e l’ha recintato. Nel frattempo, con l’aiuto di tanti bergamaschi, dove c’erano una foresta, scimmie e serpenti, sono sorte otto case che ospitano 16 bambini ciascuna, una chiesa, scuole, ostelli, saloni, cisterne per raccogliere l’acqua piovana, un centro sportivo con quattro campi da calcio e un convento per le “mamme degli orfani”, il nuovo ordine di suore che "il baba" ha fondato. In totale 80 costruzioni, tutte coloratissime. Ma c'è un altro miracolo: dal punto di vista economico il villaggio è quasi autosufficiente. Oltre alle scuole che ospitano 1400 studenti (classificate fra le prima dieci della Tanzania), a far quadrare i conti ci pensano una panetteria, una falegnameria, un negozio di frutta e verdura e la vendita di maiali: «Nella fattoria ne abbiamo cento e più», dice con aria soddisfatta.
L'incubo di Padre Fulgenzio non sono le malattie ma chi le cura: «Sono vent’anni che obbedisco ai medici e ogni volta che torno in Italia mi vogliono fare un’operazione», sospira sorridendo. Ogni sei mesi gli hanno imposto controlli in Italia, lui si sottopone pazientemente agli esami, scopre di avere qualche nuovo acciacco - roba da mandare in crisi qualsiasi essere ragionevole - e appena constatata la gravità della situazione comincia a trattare per tornare al più presto in Africa dai suoi figli, l'unica medicina che riconosce. A dicembre i dottori volevano trattenerlo un mese in più e lui si stava ammalando di malinconia. Per contrastarla, nei giorni di quello che ha definito l’”esilio” alla Basella di Urgnano, dove c’è il quartier generale dei Passionisti, ha realizzato un filmato per poter accarezzare ogni giorno con gli occhi i suoi 126 ragazzi. Il giorno prima di ripartire ha voluto salutarci e sono bastate poche parole per capire che ancora una volta i conti non tornavano: né quelli del numero dei figli né quelli delle opere realizzate. Che cosa sta combinando di nuovo?
Baba Fulgenzio, non scherziamo: qui i medici han detto che lei dovrà essere di nuovo in Italia tra 25 giorni.
«Se lo sognano… tornerò a metà giugno».
Non faccia scherzi, con tutti quei ragazzi da mantenere...
«È qui in Italia che il tumore si sviluppa più in fretta, in Africa io penso ai miei bambini e sto bene. E, comunque sia, cresce poco. Torno laggiù e faccio perdere le mie tracce».
Rifacciamo il conto dei suoi figli: quanti sono?
«Tutti tutti 126. Però i primi dodici, più altri sei, si sono trasferiti a Bagamoyo. Poi ne ho altri 19 in giro, due dei quali in seminario. Praticamente al Villaggio ne ho 90, perché ne sono arrivati quattro due mesi fa: due di tre anni, uno di quattro e uno di cinque. Adesso ne attendo altri perché ne abbiamo chiesti 16. S’è creato spazio e quindi bisogna riempirlo».
Lei ha ancora energie per adottare bambini?
«Eccome».
Ma se è pieno di malattie e già sua madre la definiva una “carretta rotta”.
«Beh, dormo pochissimo, mi aiuto con l’Alcyon e con la melatonina. Le notti sono lunghe e un po’ le prego, un po’ penso. Prendo quattro tipi di farmaci: quello per il pancreas, quello per il tumore al fegato, quello per il cuore e per il sangue, perché ho il pacemaker. Però secondo me vado avanti fino a novant’anni così. Io sono sereno perché tutte le mattine dico al mio socio di maggioranza, a Lui: ‘‘Tu hai voluto questo da me, tu mi hai dato dei figli, erano orfani e me li hai dati. Se vuoi che rimangano un’altra volta orfani, fai tu’’».
Ma lei ricorda il nome di tutti?
«No. Adesso questo è il mio cruccio. Ogni tanto li chiamo ue-ue. I nomi dei grandi me li ricordo, ma con gli ultimi arrivati faccio più fatica, confondo Pius con Amedeus. Non riesco ancora a decifrarli bene».
E come fa a seguire la vita di ciascuno di loro?
«È impossibile. Alcuni sono tranquilli e sereni, ma una quarantina sono nell’età dell’adolescenza... Che danno problema sono più le femmine dei maschi: le femmine chiacchierano, chiacchierano, chiacchierano… Ma i miei ragazzi sono i più belli del mondo. Li vedrete nel filmato. Immacolata, la bambina che si era ammalata di leucemia, è guarita perfettamente. Bisogna amarli, l’amore facilita l’intesa: io adoro loro e loro adorano il baba. Ho sempre detto che da loro non ho mai ricevuto un no».
Noi padri di questa parte del mondo difficilmente riceviamo un sì.
«È incredibile. Quando vengo in Italia e vado a cena con i miei nipoti e pronipoti mi stanco. Sono tre e mi stanco veramente, mentre là con cento non mi stanco mai. È vero quello che diceva San Giovanni Bosco, che i ragazzi non vanno solo amati, devono sapere di essere importanti più di tutte le altre cose. Qui i padri dicono: ‘‘Gli voglio bene’’, però poi hanno i loro impegni, il lavoro, gli amici… tutte cose fondamentali, ma i ragazzi devono sapere che loro sono la prima cosa, che il tempo lo si dà a loro».
Ma lei quanto tempo ha?
«A volte la sera sono veramente sfinito, e alcuni lo capiscono. Mi dicono: ‘‘Baba, devo parlarti’’. Dall’espressione del viso capiscono la stanchezza e si correggono subito: ‘‘Però vengo domani’’. La cosa più importante nell’educazione è sapere che i figli sono prima di tutto. Tutto il resto viene dopo. Fra gli ultimi che sono arrivati due sono veramente terribili, ma sono entrati subito nei ranghi. Bisogna che loro sappiano che tu li adori».
In Tanzania però vige il metodo educativo della bacchetta.
«Mai usata una volta, io non li ho mai sfiorati. In Tanzania la bacchetta fa parte della cultura. A scuola sono molto esigenti e si picchia anche forte, ma io sono sempre stato contrario e ho scritto anche una lettera agli insegnanti per chiedere di non utilizzarla. Non è cambiato molto, perché è così, fa parte della loro mentalità. Su questo tema si è aperto anche un dibattito sui giornali e allora ai miei ragazzi più grandi ho fatto fare una votazione. Non ci crederà, eppure anche tra i miei figli ha vinto ancora la bacchetta. Il fatto è che non puoi andare contro la cultura, devi entrarci dentro, e poi con dialogo e pazienza e tempo cambiare le cose».
Metterli sempre al primo posto non li vizia?
«No. Perché loro lo sanno e non se ne approfittano. Vizio i piccoli a volte con delle caramelle, ma ai grandi dico sempre: ‘‘Non dovete essere come l’edera. Non attaccatevi al baba come l’edera si attacca alla pianta, perché se la pianta muore anche l’edera’’. Poi un consiglio da parte mia c’è sempre».
E quando uno è in crisi o lo vede piangere?
«Non occorre che venga a dirmelo, lo capisco e lo lascio piangere da solo, un giorno o due. Poi lo chiamo: “Cosa c’è?” e gli tiro fuori il problema. A volte si riesce, a volte se lo tengono. Non sono il salvatore di tutti. Non mi piace vedere tristi i miei figli, ma la cosa importante è voler bene a loro più che a me stesso, dare il tempo a loro più che a me stesso. Una delle mie figlie è molto estroversa, non ascolta troppo le mamme e tende a fare quello che vuole. Un giorno ho visto che aveva un vestitino stracciato. L’ho chiamata e le ho detto: “Una signorina come te non può avere un vestito così”. Gliene ho dato uno nuovo ed è andata via senza dirmi niente. Mezz’ora dopo è arrivata con una bellissima lettera: “Grazie baba perché hai visto il mio vestito”. Le piccole attenzioni sono più importanti delle grandi».
In che modo trova il tempo per tutti?
«Io tutte le sere sono con loro a cena, casa per casa. Mangiare con loro è per me il momento più bello».
E a scuola come vanno?
«Bisogna stare attenti anche quando uno prende dei bellissimi voti. I voti nelle scuole della Tanzania li espongono tutte le settimane. Quando vedo che uno ha votazioni alte lo chiamo, gli dico bravo, gli faccio i complimenti. Quando invece vedo che i voti sono bassi li incoraggio. Apprezzano tantissimo queste piccole cose, perché non si aspettano che tu le veda».
E quando saranno grandi?
«A 18 anni è obbligatorio uscire dagli orfanatrofi. Finiti gli studi si troveranno un lavoro. La bambina da cui è iniziato tutto, Josephine, sta già diventando sarta e verrà a lavorare da noi. Ai miei figli l’ho detto: “Guardate che al Villaggio tra bidelli, cuoche, insegnanti, una cosa e l’altra, una quarantina di posti di lavoro ci saranno”. Poi quando saranno più grandi e il Baba non ci sarà più ci penseranno le mamme. La cosa importante è che quando torneranno sappiano di avere una casa, per questo ho costruito in fretta l’ostello di 400 posti».
Le suore-mamme hanno la sua stessa idea di educazione?
«La loro è un po’ più rigida della mia. Sono 17, tutte africane e un africano castiga volentieri, mette a tacere, mentre a me quel metodo lì non è mai piaciuto. Basta avere le calze bianche sporche e sono frustate. Al mattino alle sette però è bello vedere i bambini davanti alle case che lucidano le scarpe, anche i più piccolini che con gli straccetti si fregano scarpe e calzini. È un rito in Tanzania: scarpe nere e calzini bianchi. Tutti i giorni si devono cambiare, perché giocano nella terra e nella polvere, ma la mattina devono presentarsi sotto la bandiera perfetti come soldatini».
E con l’imam, con gli islamici, come va?
«Bene. Anche perché metà dei miei studenti sono musulmani e si trovano benissimo, e l’imam sa che tutte le mattine, sotto la bandiera della Tanzania, al Villaggio della gioia c’è la preghiera musulmana oltre a quella cristiana. Davanti a tutti, a turno, un ragazzo musulmano e uno cristiano recitano la preghiera. Con sommo rispetto gli uni per gli altri».
Baba, qual è la sua idea di educazione?
«È cultura, cultura, cultura. Ai ragazzi dico sempre: “La cultura vi salva”. L’inglese si impara fin dall’asilo e i miei bambini di 12 anni lo parlano regolarmente. La scuola è tutta in inglese tranne l’ora di kiswahili, la lingua locale. Quelli delle primarie tornano da scuola alle tre e mezza del pomeriggio dopo essere entrati alle sette del mattino. Quelli delle secondarie tornano alle diciassette. Alle 19 c’è la cena e alle 20 c’è ancora scuola per un’ora con i professori, si fanno i compiti. Hanno libero il week end».
Un impegno molto pesante.
«Altro che supermercati e banche: il primo cibo di un popolo è la cultura. Don Milani, il mio maestro, diceva: “Voi ragazzi venite a scuola anche a Natale e a Pasqua perché quando saprete leggere e interpretare la prima pagina di un giornale sarete liberi”».
Ma adesso cosa vuol costruire ancora?
«Un nuovo villaggio, tre case famiglia a Bagamoyo per cinquanta orfanelli e un piccolo convento per le suore. Abbiamo già il terreno cintato. E poi il mio sogno è costruire un villaggio ad Haiti, il Paese con più orfani al mondo, dove c’è un missionario come me, più giovane e matto di me. Bisogna guardare in alto e avere fede. Ma guardate il filmato, lì c’è tutto».