Una rabbia che chiede giustizia

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Che altro dire, dopo che giornali e tv dell’Europa e degli USA hanno detto tutto sui disordini scoppiati a Ferguson, nel Missouri, dopo la sentenza che mandava assolto l’agente accusato di aver ucciso Michael Brown nell’agosto scorso? La frase-icona l’ha già detta il capo della polizia: che l’altra notte è stata peggiore della peggiore di agosto. Frase storica. Ha aggiunto anche che questi eventi avranno un lungo seguito nella vita della comunità. Altra frase storica.

Le foto e i video sono gli stessi di agosto e - se si può confessare un compiacimento professionale - ormai siamo quasi in grado di riconoscere le strade in cui si svolgono gli scontri, nonostante la città ci sia nota solo via Googlemaps. Riconosciamo anche le armi da guerra e le fascette da elettricista trasformate in manette. Solo che questa volta la notte sembra più scura. In effetti siamo in novembre.

Dunque accenniamo solo ai fatti: In agosto (giorno 9) la polizia uccide Michael Brown, un giovane di colore che aveva avuto un alterco con un agente. Succede il finimondo. Quando torna la calma, a pochi chilometri di distanza e in pieno giorno un altro morto: Kajeme Powell, che stava semplicemente camminando fuori di un supermercato dove aveva rubato (ma forse no) dei biscotti e una lattina di qualcosa da bere. Ma questa seconda morte non provoca grandi rivolte, forse perché il ragazzo non era molto conosciuto. Esce il video della morte di Powell e si vede benissimo che i poliziotti hanno sparato senza che ce ne fosse alcun motivo, a dispetto della versione ufficiale diffusa dalle autorità.

A Ferguson, nel frattempo, il capo della polizia locale sostiene una versione della morte di Michael Brown che fa a pugni con quello che tutti hanno visto. Il giorno dei funerali del ragazzo - preceduti da una serie di richiami alla concordia sociale diramati da tutti gli interessati, compresi i genitori del morto - una conferenza stampa promossa dalla stessa polizia li corregge. Il poliziotto che ha sparato viene incriminato.

Lunedì notte è stata emessa la sentenza del processo. Da due giorni tutti - compreso il padre di Michael - hanno invitato alla calma. Ma la giuria ha mandato assolto l'imputato e dato ragione ai suoi superiori. Le autorità di polizia non hanno mancato di far notare che le regole di ingaggio prevedono che si possa sparare per uccidere. Dunque la legge non è stata violata. Tutti morti legalmente.

Perfetto. La violenza della gente è illegale e pertanto non sarà tollerata. Lo ha detto anche il presidente Obama, che pure ha invitato le forze dell’ordine a non avere il grilletto troppo facile. La giustizia va riformata, ha anche promesso.

Procura un notevole imbarazzo continuare a sentir ripetere frasi del genere e ancor di più lo produce il fatto di doverne parlare e riparlare. Che dire, dunque, che non sia già stato detto?

Al di sopra di tutto c’è solo una gran voglia di menar le mani che ha bisogno di un’occasione per scatenarsi solo perché a nessuno fa piacere dover ammettere di non avere una ragione quale che sia per mettersi a spaccare tutto. Come il desiderio di poetare mette il poeta nella condizione di cercare un argomento su cui far fiorire il testo, così la rabbia sociale sorda, soffocata nei giorni comuni dalle esigenze e dagli imperativi della quotidianità che l’alimenta, trova nei giorni festivi o in qualche sentenza fantasiosa il pretesto per dilagare fuori dai limiti che le sono stati imposti.

Non è la giustizia che va riformata: è la rabbia - l’urlo dei dannati, come lo chiamava Franz Fanon - che dev’essere riconosciuta. Gli inviti a tenerla a bada non fanno altro che aumentarne la potenza quando scoppia. Assunta, dev’essere, la rabbia in quella sua esigenza di giustizia di cui la giustizia dei tribunali continua a farsi beffe.

Esiste qualcuno, oggi, che possa prendere in carico questo problema? Pare di no. Certo non coloro che pensano di risolvere la questione negando ai neri di Ferguson di riunirsi nei giardinetti.

 

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