REMO MORZENTI PELLEGRINI

Il rettore dell'università di Bergamo «Dobbiamo portarla nei quartieri»

Il rettore dell'università di Bergamo «Dobbiamo portarla nei quartieri»
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Remo Morzenti Pellegrini si definisce «un uomo di scuola» perché dalla scuola non è mai uscito, dai tempi dell’asilo. Studente dell’università di Bergamo, si è laureato con una tesi sul diritto amministrativo e subito è stato coinvolto dal professor Carlo Emanuele Gallo nell’attività accademica. In tempi brevi ha salito tutti i gradini della docenza: docente a contratto, poi associato, quindi ordinario. Nel frattempo era riuscito anche a vincere il concorso come funzionario per la pubblica amministrazione in Provincia, lavoro che aveva lasciato dopo l’assunzione stabile in università. Sposato, 48 anni, due figli, nella sua vita ritiene di avere avuto la fortuna di avere incontrato alcuni maestri come il professor Gallo e monsignor Loris Capovilla. È un ricercatore attento, preciso, nel campo degli studi sul diritto amministrativo, con all’attivo numerose pubblicazioni; nell’ultimo periodo Morzenti Pellegrini sta analizzando le nuove modalità di gestione dei servizi sociali e dei servizi pubblici locali nonché la nuova realtà universitaria, all’indomani dell’approvazione della legge 240 del 2010, confrontandola con quella di altri Paesi europei.

 

«L’università ha sempre avuto due missioni, insegnamento e ricerca. Oggi ce n’è una terza, e forse è la più importante».

Quale?
«Divulgare ampiamente queste funzioni fuori, sul territorio, non solo fra le mura delle aule universitarie. Una relazione nuova con la nostra terra. Università che diventa motore di conoscenza e di sviluppo. Un avamposto».

Si spieghi.
«Diamo al via con Humanitas alla facoltà universitaria di Scienze infermieristiche. Lanciamo la laurea di Medicina in lingua inglese in collaborazione con il Papa Giovanni e l’università del Surrey. E abbiamo già avviato la laurea in ingegneria e tecnologia per la salute. Abbiamo investito trenta milioni di euro per il recupero della Montelungo che ospiterà tanti studenti che arrivano da lontano. Queste scelte vanno in una direzione precisa, possono rappresentare una possibilità di sviluppo per la nostra provincia».

 

 

Italcementi e Banca Popolare di Bergamo hanno ammainato bandiera. Il Credito anche. Bergamo è disorientata.
«A un incontro pubblico una signora, una mamma, mi si è avvicinata, mi ha detto: “Non ve ne andrete anche voi...” e io ho risposto alzando le spalle, come se avessi ascoltato una battuta. Poi ci ho ripensato. Non era una battuta, era l’espressione di un sentire della gente, di questo momento di effettivo disorientamento. Ho pensato che quella donna aveva detto una cosa tremendamente seria. E ho sentito la responsabilità dell’università».

La terza missione.
«La terza missione, l’avamposto, sì».

Lei è rettore dell’università di Bergamo dall’otto b re 2015. Da dove viene?
«Vengo da Clusone. E dall’università di Bergamo che ho frequentato come studente, poi come assistente e come professore. Adesso sono rettore, pro tempore».

Pro tempore in che senso?
«Nel senso che il mandato è di sei anni e non è rinnovabile. E poi c’è un altro elemento importante e poco conosciuto: l’università è l’unica pubblica amministrazione che viene realmente e rigorosamente valutata da un’agenzia, l’Anvur (Agenzia nazionale valutazione università e ricerca). E da pochi anni esiste anche un altro elemento: l’università riceve finanziamenti in base ai costi standard e non in maniera automatica e su base storica. Oggi meglio fai e più fai mantenendo i costi in termini ragionevoli e meglio vieni finanziato. Ricevi di più se fai bene con poco. La combinazione di queste cose ha cambiato volto alle università. E anche al ruolo e al potere dei rettori».

Lei si è laureato in diritto amministrativo, non sembra una materia affascinante.
«Non sembra, no. Ma io ero interessato alla pubblica amministrazione da quando ero bambino perché mia mamma era responsabile degli Affari generali del Comune di Clusone. E quindi tutti i giorni respiravo la passione di mia madre per la cosa pubblica, per cercare di risolvere i diversi problemi che si presentavano. Ho avuto diverse fortune nella mia vita. Per esempio avere dato la tesi con il professor Carlo Emanuele Gallo che in quel periodo era ordinario a Bergamo».

 

 

Perché fu una fortuna?
«Il professor Gallo mi disse: “Visto che una tesi in diritto amministrativo la fa solo lei, affronti un argomento nuovo”. Eravamo nel 1993, in piena Tangentopoli, era stata approvata la legge Merloni sugli appalti, sulla trasparenza. Io sviluppai una tesi in questa direzione, confrontando il nostro diritto amministrativo con quello della Comunità europea. Fu contento. Mi laureai, una settimana dopo andai a trovarlo in ateneo per ringraziarlo, con un libro in regalo».

Gentile.
«Sì, ma allora si usava. Era luglio, una giornata limpida, mi ricordo. Eravamo in piazza Rosate. Lui mi chiese: "Adesso che cosa fa?". Io risposi che avrei fatto il militare, e poi ci avrei pensato. Allora mi disse: “Sì, ma adesso che cosa fa?”. Io risposi che non avevo niente da fare. Allora mi chiese di accompagnarlo alla biblioteca Mai perché stava cercando un manoscritto di Silvio Spaventa. E così andammo. Camminando mi chiese diverse cose, mi chiese di parlargli delle fonti storiche, mi domandò se fossi in grado di recuperargli un certo discorso tenuto sempre da Spaventa a Bergamo. Glielo trovai. Io non mi rendevo conto, ma mi stava esaminando».

Ha superato l’esame.
Morzenti sorride, apre le braccia. È seduto nel suo ufficio di via Salvecchio, parla con piacere, ripete spesso di avere avuto fortuna. «Sì, ho superato l’esame. Non sono più uscito dall’ambiente universitario anche se ho svolto altri lavori, ho insegnato al Pesenti di Clusone, anche al serale, ho vinto il concorso per diventare funzionario amministrativo della Provincia. Ma non ho mai lasciato l’università. Ogni giorno andavo in ateneo, studiavo, scrivevo. Con il professor Gallo, poi con Tagliarini e Barbara Pezzini, con il professor Serio Galeotti. Sono stato il suo ultimo collaboratore. Nel 1999 sono diventato docente non di ruolo del corso “Istituzioni di diritto pubblico” del nuovo corso di Scienze dell’e ducazione, voluto dal rettore Alberto Castoldi. Poi divenni docente a contratto, quindi superai il concorso per ricercatore e quindi quello per professore associato, nel 2004...».

 

 

Giovanissimo.
« Abbastanza. Avevo trentasei anni. Sono un uomo di scuola».

Un uomo di scuola. Come giudica il concorsone di questi mesi? Si può decidere se una persona che ha insegnato magari per vent’anni è idonea o meno in un colloquio di trenta minuti?
«No, non si può. Ho contribuito alle linee guide della “buona scuola”. Avevo suggerito di fare come in Inghilterra e in altri Paesi. L’insegnante viene seguito nelle classi per un mese, loro dicono “You must teach in class”. Dopo questa osservazione si decide se è idoneo oppure no».

Lei è stato molto legato a monsignor Loris Capovilla.
«Sì. Tra poco sarà un anno dalla sua morte. Lui mi manca molto. Era un maestro vero e tutti noi abbiamo bisogno di maestri. Incontrarlo è stata un’altra fortuna della mia vita. Lo conobbi nel 1997, a Clusone, lui era venuto per l’inaugurazione di una mostra su Manzù. Capovilla era molto legato a Manzù, dai tempi di Papa Giovanni. In quei giorni aveva 81 anni. Mi ricordo che lo vidi scendere le scale del sagrato della basilica di Clusone: sembrava un ragazzino».

Che cosa l’ha colpita di lui?
«Era un uomo di una cultura sterminata, Bergamo deve tenere stretta la sua testimonianza, studiarla. Lui ha scelto di vivere gli ultimi venticinque anni della sua vita tra noi, nella casa di Papa Giovanni a Sotto il Monte, Cà Maitino. Quel giorno lo salutai, mi presentai, lui mi guardò dritto negli occhi e mi disse di andare a trovarlo. Io dopo un po’ lo chiamai, molto esitante, ma lui fu tanto accogliente. Ecco, anche il suo senso di accoglienza mi ha colpito. Tra l’altro era stato amico anche del primo rettore della nostra università, Vittore Branca, si conobbero a Venezia, alla Fondazione Cini. Non c’è persona della cultura internazionale del secondo Novecento che Capovilla non abbia incontrato. Quel giorno, voglio ricordarlo, Capovilla fece incontrare la prima moglie di Manzù, Tina Oreni, con la seconda, Inge Schabel. Fu un momento importante per la loro vita».

Abbiamo bisogno di maestri.
«Sì, tanto. Io lo vedo fra i ragazzi. Tutto questo disorientamento... Hanno bisogno di persone affidabili, profonde di pensiero, oneste intellettualmente che indichino una direzione, un metodo. Con un obiettivo: conoscenza e consapevolezza».

 

 

Speranza.
«Sì, la speranza motivata dalla conoscenza. Capovilla ripeteva sempre la frase del Concilio Vaticano: “Tantum aurora est”. Siamo soltanto all’aurora. Soltanto all’inizio. E poi mi diceva: “Stiamo camminando, Remo”. A cento anni, era un grande uomo di cultura, e nella sua cultura, nella sua visione del mondo, la speranza stava al centro. Credenti e non credenti. Non faceva distinzione, ripeteva: “Siamo tutti fratelli”. E ci credeva veramente».

Dicevamo di Bergamo.
«Bergamo è disorientata in modo particolare. Abbiamo tutti una grande responsabilità, anche l’università. Ma Bergamo sta cambiando».

Università e aeroporto sono sinonimi di apertura, di orizzonti nuovi, di sguardo verso il mondo.
«Credo in questa nuova Bergamo che sta nascendo, nonostante diverse resistenze. Stiamo elaborando una cultura nuova».

Teatro Donizetti, biblioteca Mai, accademia Carrara sono i tre poli della grande cultura a Bergamo. Se d’un tratto chiudessero, qualcuno se ne accorgerebbe?
«Eccome. Questi luoghi con le loro attività, con il loro patrimonio, sono essenziali per la città, per la sua identità».

Queste istituzioni sono seguite da qualche migliaio di bergamaschi. Diciamo, al massimo, ventimila. Ma gli abitanti della nostra terra sono un milione e centomila. Ne mancano all’appello un milione e ottantamila.
«È vero. E in questa direzione bisogna lavorare, impegnarsi. Divulgare, portare la cultura, la bellezza in ogni luogo. La conoscenza. Nei quartieri, nei paesi, nelle frazioni».

Nelle fabbriche, nei centri commerciali.
«Perché no? Le rispondo con una frase che direbbe monsignor Capovilla: stiamo seminando, i frutti arriveranno. In un mondo che cambia in modo troppo veloce, il pensiero, la conoscenza e - mi lasci dire - la buona volontà sono essenziali per andare verso il futuro, verso l’avvenire, magari preoccupati, ma senza paura».

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