Un pensiero per Sergio Borsi Il direttore che fece ripartire L'Eco

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Lunedì 23 marzo è morto a Milano Sergio Borsi, giornalista. Vent’anni fa, diciannove per la precisione, era stato nominato direttore de L’Eco di Bergamo. Lo aveva chiamato il vescovo-editore Roberto Amadei dopo un periodo tribolato per il giornale, anche a causa della malattia che aveva costretto per mesi il direttore Gino Carrara a starne lontano. Borsi, poco conosciuto in città, era però un nome noto nell’ambiente giornalistico, perché aveva guidato la Federazione Nazionale della Stampa, il sindacato unico della categoria. Veniva dalla Rai e della Rai aveva conservato lo stile e l’orizzonte. A volerlo erano stati il presidente Enzo Sensi e soprattutto l'amministratore delegato Federico Manzoni, che puntavano su un non bergamasco per operare una specie di rivoluzione in azienda: al giornale vigeva infatti una sorta di feudalesimo, con tanti capi e perciò nessun capo, che esigeva di essere superato. Borsi mantenne fede al compito assegnatogli.

Appena insediato convocò per il mattino seguente alle 11 la prima riunione di redazione della storia del giornale. Va detto che a quel tempo si cominciava a lavorare verso le quattro del pomeriggio e il fatto che Borsi avesse costretto i capi a presentarsi di buon’ora (fuso orario giornalistico) per sedersi intorno a un tavolo spinse le mormorazioni alle stelle: «Dobbiamo fare il giornale e questo qui, che non sa nulla di Bergamo e non è neanche di Bergamo, ci fa perdere tempo con le riunioni». La mattina dopo, tuttavia, quelli che dovevano esserci, c’erano tutti. Mai vista una cosa simile.

Dopo una breve presentazione il Direttore spiegò che cosa si doveva fare: «Ogni capo presenti quello che prevede di mettere domani sul giornale e ci confronteremo sulle idee». Fu la fine delle repubbliche indipendenti, o meglio l’inizio di un lavoro fatto insieme. Indimenticabile il momento in cui interpellò Roberto Ferrante, collega che gestiva una pagina e lavorava da solo in un ufficio. Borsi lo incalzò: «Tu cosa pubblichi?». Preso in contropiede Ferrante tirò fuori da chissà dove la vicenda di un costruttore bergamasco che aveva fatto fortuna in Namibia: «Hai già scritto l’articolo?», chiese il direttore. «No, devo ancora chiamare in Africa». «Bene - si sentì dire - domani parti e vai a intervistarlo». Convinti com’erano in tanti che il mondo intero si estendesse fra l’Adda a ovest e l’Oglio ad est, il fatto di trovarsi improvvisamente catapultati nell’Africa australe fu avvertito come un vero choc, dal quale qualcuno non si riprese mai. Ma da quel giorno il giornale si spalancò.

Nei quattro anni della sua direzione Borsi continuò ferocemente a pensare in grande (forse troppo in grande per un quotidiano di provincia). In ogni modo fu grazie a lui se ebbe luogo la stagione di rinnovamento che avrebbe ridato slancio al giornale dei bergamaschi negli anni successivi: introdusse i computer in redazione, impose una grafica ordinata, volle corrispondenti nelle maggiori capitali d’Europa e pensò la nuova sede al terzo piano, realizzata sul modello della sede Rai di Viale Mazzini. Due anni e mezzo vissuti alla grande, dopo i quali gli amministratori cominciarono a pensare che forse si stava spendendo un po’ troppo.

Quando, senza che ancora si fosse spenta l’eco della mitica riunione sulla Namibia, Borsi lasciò il giornale, aveva raggiunto l’età della pensione. Gli sarebbe piaciuto prolungare il contratto di un altro anno, ma Bergamo non sempre lo aveva capito e viceversa. In ogni caso, la rivoluzione era compiuta e l'Eco era pronto per entrare nel nuovo millennio: il "non bergamasco" aveva raddrizzato la nave e prima di lasciarla volle anche indicare la rotta al suo successore, raccomandandogli, tra l'altro, di confrontarsi costantemente con l'editore e di non dipendere troppo dai manager, perché «ne va della dignità del giornale e dei giornalisti». Anche in questo aveva visto lontano.