«La vita non mi appartiene»

Siria, il rapimento di Padre Dhiya che «voleva stare fra la sua gente»

Siria, il rapimento di Padre Dhiya che «voleva stare fra la sua gente»
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Di padre Dhiya non si hanno più notizie da sabato, giorno in cui la Custodia di Terra Santa ha perso i contatti con questo francescano, iracheno ma parroco a Yacoubieh, nella provincia siriana dell’Idlib, una di quelle terre agonizzanti per anni di guerra tra Assad e i ribelli e dove, ormai, il controllo è passato nelle mani dei qaedisti dl Jabhat al-Nusra. Su di loro, chiaramente, sono caduti i principali sospetti, dopo che una brigata non identificata è andata a prelevare il religioso nella sua abitazione, invitandolo ad un colloquio con l’emiro locale, e facendo così perdere le sue tracce.

 

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«La vita non mi appartiene». Siria, le tracce di cristianità in questa terra si fanno sempre più rade, e non soltanto in quelle zone che oramai sono parte dello Stato Islamico da più di un anno. In un conflitto che ha prodotto almeno 4 milioni di profughi e più di 200mila morti in cinque anni, le minoranze religiose si sono ridotte ulteriormente, tra fughe verso terre migliori e stragi. Eppure padre Dhiya qualche anno fa aveva accettato di trasferirsi a Yacoubieh per servire la popolazione locale, ben sapendo che la zona era diventata particolarmente pericolosa. Il sacerdote, nato a Mosul nel ’74 e sacerdote dal 2002, aveva ricevuto la lettera con cui la Custodia di Terra Santa chiedeva disponibilità a tutti i confratelli per quel servizio. «Lui mi rispose che quella lettera era arrivata nell’anniversario della sua professione religiosa», ha spiegato Pizzaballa ad Avvenire, «Per lui era un segno: “La vita non mi appartiene, la dono volentieri alla gente di quel villaggio”, mi scrisse».

 

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Il suo convento era distrutto. Era quindi una scelta di fede profonda quella che padre Dhiya aveva operato anni fa, decidendo di salutare Latakia, città sulla costa, per addentrarsi in quell’interno siriano così spinoso. E qui è rimasto fino a oggi, sebbene, c’è da credere, la situazione sia andata peggiorando per i cristiani. Il convento del sacerdote era stato distrutto dai missili: lui viveva in una parte della sagrestia, coi ribelli che si erano invece impossessati della scuola limitrofa e della canonica.  Eppure il sacerdote aveva relazioni abbastanza buone con gli jihadisti, tanto che aveva accettato di coprire i simboli religiosi: non portava croci al collo, né suonava le campane durante il giorno.

La galassia dei ribelli. «Non era mai facile l’equilibrio, ma lui voleva stare con la gente e accettava quello che chiedevano (i fondamentalisti, ndr)», spiega ancora Pizzaballa. Per questo il suo rapimento desta ulteriore preoccupazione: è difficile da inquadrare, dimostrando quanto turbolento sia il panorama del fondamentalismo islamico in Medio Oriente. «Non siamo in grado di capire: il mondo dei “ribelli” è una galassia di sigle incomprensibili. C’è chi condanna, c’è chi cerca di aiutare, c’è chi mente: stentiamo a comprendere e non abbiamo, purtroppo, notizie dirette. Certo è un segnale preoccupante, perché padre Dhiya aveva accolto tutte le richieste: forse è un irrigidimento o un’intimidazione per farci andare via». Il nome di padre Dhiya si aggiunge alla lista già ricca di religiosi rapiti in Siria. Dal 29 luglio del 2013 è sparito il gesuita romano padre Paolo Dall’Oglio, e da due anni mancano anche l’arcivescovo della chiesa siro-ortodossa di Aleppo Mor Gregorius Yohanna Ibrahim e il vescovo della chiesa greco-ortodossa di Aleppo Paul Yazigi.

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