De Roon, silenziosamente leader «L'Atalanta è proprio una famiglia»
Marten de Roon è tornato a casa. È stato lui stesso a dirlo, e a scriverlo sui social, venerdì 11 agosto 2017, giorno in cui da Middlesbrough è tornato a Bergamo poco più di un anno dopo il suo addio. In Premier il centrocampista olandese ha anche fatto bene, ma la retrocessione in Championship (la B inglese per intenderci) della sua squadra e l'affetto per l'Atalanta hanno pesato molto, tanto da spingerlo a fare di tutto per tornare. Obiettivo raggiunto, con grande gioia di tutti noi. E così, per accoglierlo al meglio, abbiamo pensato di riproporvi l'intervista che nel settembre 2015 ci rilasciò e in cui parlava di quei primi mesi a Bergamo e in maglia nerazzurro. Incredibile come, già allora, trasparisse tutto il suo affetto per noi. Un affetto, ovviamente, ricambiato. Bentornato Marten, e sempre forza Atalanta!
Marten de Roon, a 360 gradi. Il campo ormai lo conosce ed è il terreno dove ha fatto innamorare tutti i tifosi, chiamando in gioco paragoni illustri e un'infinità di bei voti sui giornali. Ma fuori dal rettangolo verde, chi è veramente questo olandesino sbucato dal nulla nello scorso luglio? Da dove arriva? Quali sono le sue passioni fuori dal campo? Quasi un’ora di chiacchierata, tantissimi temi toccati e una certezza: Marten de Roon ha già capito fino in fondo quanto vale l’Atalanta per la sua gente e ha trovato a Bergamo una grande famiglia.
Marten de Roon, iniziamo dalla lingua: come va con l’Italiano?
Abbastanza bene. Capisco quasi tutto quello che sento, per parlarlo mi serve ancora un po’ di tempo. È uno degli ostacoli più grandi per completare al meglio la mia integrazione qui a Bergamo.
Dopo alcuni mesi in città, adesso hai ben chiaro cosa è l’Atalanta?
Sono finito in una grande famiglia. Si capisce da tante cose, sia a Zingonia che fuori. Per la nascita della mia bambina, la società ci ha fatto avere dei fiori in ospedale, il presidente Percassi e il figlio Luca ma anche gli altri dirigenti con Sartori in testa sono sempre molto vicini a noi. E poi i compagni: per due mesi mi hanno chiesto come andavano le cose alla mia compagna Ricarda, e quando poi è nata Evie tutti mi aspettavano in spogliatoio per farmi gli auguri, chiedermi come stavamo, ecc... Un calore che non sempre si sente in Olanda.
E l’ambiente?
Mi avevano spiegato dove sarei arrivato, avevano anche parlato della Festa della Dea, ma mai avrei immaginato che tutto fosse così. C’è un tifo caldissimo, si capisce quanto la città e la squadra siano connesse.
Raccontaci un po’: da dove nasce Marten de Roon calciatore?
La mia storia è molto semplice. Nella mia famiglia lo sport piaceva molto, ma era solo un divertimento. Non ci sono particolari storie sportive legate alle mie origini: da quando ho iniziato a camminare, probabilmente ho iniziato a giocare a pallone. A 5 anni, come tutti, avevo il mito di Bergkamp, volevo diventare come lui. Fino a 9 anni ho giocato con gli altri bambini della mia città e poi ho partecipato ad una sorta di leva del Feyenoord, un open-day organizzato dalla società con centinaia di bambini. Giocammo tutto il giorno.
Andò bene?
Molto, mi richiamarono e dopo altre selezioni entrai nelle giovanili. Con il Feyenoord l’esperienza fu importante, tutti gli allenatori mi hanno dato qualcosa. A 15 anni sono passato allo Sparta Rotterdam e lì ho conosciuto il primo importante tecnico della mia carriera. Si chiama Arjan Van der Laan, avevo lasciato il Feyenoord con il morale un po’ basso, in 3 anni con lui ho ritrovato lo spirito migliore.
C’è un episodio particolare che ti ricordi legato al vostro rapporto?
Ero al secondo anno con lo Sparta e mi ruppi la gamba. Il giorno dopo l’infortunio venne da me: mi disse di non preoccuparmi, che volevano investire su di me perché credevano molto nelle mie qualità. Lo hanno ripetuto anche nei mesi successivi. Non appena tornai a disposizione fui subito rimandato in campo e questo fu fondamentale per la mia crescita personale. Con lo Sparta passai direttamente dai giovani alla prima squadra, senza passare dalla Primavera.
Dallo Sparta poi sei passato all’Heerenveen, dove hai lavorato con Marco van Basten.
Non è stato solo un allenatore, ma qualcosa di più. Eravamo entrambi appena arrivati nel club, è capitato di condividere anche momenti fuori dal campo, come alcune cene. Vivevamo in appartementi vicini, mi invitava a mangiare con lui: sembra uno chiuso, ma poi quando lo conosci diventa molto aperto. Tra l’altro, lui ha smesso di giocare nel 1993 e io sono nato nel 1991, non ho avuto modo di vederlo giocare. Mio padre e gli amici mi dicevano «È Marco van Basten!» ma per me era principalmente mister van Basten. Prima che di tattica e di tecnica ci insegnava a giocare con gioia.
Vi sentite ancora?
Ogni tanto via messaggio. Parliamo di campo ma anche di cose personali: il compleanno, come vanno le mie bambine... Mi ha fatto le congratulazioni per la nascita di Evie, mi ha pure scritto prima del match con la Juve, e col Milan... Fu lui che mi ha affidò la fascia di capitano all'Heerenveen, un momento molto gratificante per me. E ricordo bene che quando andavamo in trasferta era normale vedere lui attorniato da tanti tifosi che volevano gli autografi, mentre a noi nessuno ci guardava, quasi.
Ecco, dicevi del match di San Siro. Come fai ad andare in campo così tranquillo? Sembra che giochi in Italia da tempo.
La lingua, come ho detto, è complicata ma i termini tecnici ormai li conosco bene. All’inizio in campo parlavo poco, c’erano altri compagni che lo facevano molto: Bellini, Stendardo... Pian piano ho preso fiducia e giocando in quella zona di campo ho iniziato ad aumentare le mie chiamate. È importante farsi sentire dai compagni, possiamo fare le cose molto meglio in una zona di campo delicata.
Come va con Reja?
Quando sono arrivato, il mister mi chiese dove potevo giocare. A Rovetta ho giocato 2 partite al centro e 4-5 sulla destra. Ho messo in campo corsa ed energia, ma poi quando Cigarini si è fatto male, Reja mi ha chiesto di stare al centro e con il passare delle gare non mi sono più spostato. Il rapporto con lui è proficuo: mi parla molto in allenamento per correggere la posizione e insegnarmi i movimenti. Anche in partita: contro la Lazio, dopo un primo tempo in cui ero un po’ in difficoltà ci siamo confrontati nello spogliatoio e mi ha detto: «Tranquillo, correggi questa cosa di 10 metri, quest’altra di 10 metri e vedrai che le andrà meglio».Sembrano dettagli, ma sono decisivi.
Un voto da 1 a 10 sulle tue prestazioni qui Bergamo?
Un bel 7, per quanto faccio in campo. Se dovessi allargare il discorso a come vanno le cose qui, anche con la mia famiglia, starei più alto. Se poi ci fosse l’Atalanta al quarto posto in classifica, il voto sarebbe addirittura sopra l’8, magari anche un bel 9.
E il 10?
Solo se sapessi l'italiano bene.
Che ragazzo sei fuori dal campo?
Molto tranquillo e calmo. Vorrei essere socievole, la lingua non mi aiuta ma cerco di parlare sempre con tutti. Mi piace andare a cena con amici, quando siamo a casa faccio il papà delle mie due bambine: siamo una famiglia normalissima. Di Bergamo mi piace tutto, vado spesso al Sole di Città Alta ma anche in centro con il passeggino, per passeggiare con la famiglia.
E i bergamaschi ti riconoscono?
Adesso sì, all’inizio un po’ meno. Pensa che quando ero appena arrivato, fui ospite della festa del Moscato di Scanzo. Ero con mia sorella, e tutti chiedevano foto a lei che è molto carina, la classica ragazza olandese. Nessuno si faceva foto con me. Pian piano le cose sono cambiate, ieri sono stato all’ufficio Anagrafe del Comune di Bergamo per le pratiche della nascita della mia bambina: in pochissimo tempo mi hanno chiesto 4-5 fotografie. Ero ancora mezzo addormentato ma ho risposto di sì con grande felicità.
Come vivi questo affetto?
Anche in Olanda capitava che i bambini chiedessero foto e autografi, ma qui è un'altra cosa. A Bergamo c’è un legame fortissimo tra la gente e noi giocatori, i tifosi ci riconoscono e vogliono il contatto. Hanno l’Atalanta nel cuore. È bellissimo. Io sono un ragazzo come tanti di quelli che mi fermano per strada, semplicemente gioco a pallone. Per me è normale rispondere con piacere a queste richieste.
Parliamo di arbitri: come va con loro? Finora hai preso tre gialli in campionato.
Con gli arbitri non parlo mai. Se mi rispondono con la foga delle partite fatico a capire e quindi evito. Ho preso tre ammonizioni ma non mi hanno convinto molto, penso che in Italia diano cartellini gialli un po’ più veloce rispetto all’Olanda. Ma nel complesso cambia poco: l’anno scorso presi 5 ammonizioni in 20 partite, ora siamo a 3 in 12 gare. Gioco anche una zona di campo in cui è più facile prendere un giallo, magari per Moralez che gioca in avanti è più raro incappare in queste sanzioni. Certo, il discorso non vale per Pinilla (sorride, ndr).
Tanti complimenti, tanti elogi. Ma se ti chiediamo tre difetti?
Wow, proviamo. Il primo è di campo e riguarda l’approccio alla partita: spesso mi piacerebbe fare di più di quello che riesco, e mi trovo così a correre dappertutto. Devo imparare a gestirmi meglio. Fuori dal campo, nella vita di tutti i giorni, sono molto pigro: la mia ragazza ama pulire e tenere ordinata la casa, mentre a me non piace.
Tutto qui?
Ah, ecco. Mi piacciono le patatine fritte, quelle del sacchetto. Troppo. Amo mangiarle sul divano dopo cena. Fortunatamente, qui in Italia non ci sono tutti i gusti che si trovano in Olanda ed è una fortuna per il mio fisico.
Chiudiamo con qualche curiosità: piatto preferito?
Faccio una premessa, qui si mangia benissimo. Sia nei grandi ristoranti che in quelli piccoli che trovi per caso. Potrei dire i casoncelli ma significherebbe fare un torto a qualcosa d’altro.
Cosa dice del lavoro che fai Linn-Sophie, la tua bimba di 3 anni?
Per lei è stato difficile passare dall’Olanda all’Italia, nonostante abbia solo 3 anni. Adesso pensa comunque a giocare e sta imparando sia l’inglese che l’italiano, va in una scuola bilingue. È la mia prima tifosa, quando gioco in casa viene sempre allo stadio. E poi continua a chiedermi quando potrà accompagnarmi in campo. Se gioco in trasferta, appena chiamo ruba il telefono alla madre: «Hai vinto?», mi dice. E se rispondo di sì: «Sono orgogliosa di te». Bellissimo.
Alla tua compagna piace pulire, ma chi cucina?
Me la cavo. Non sono uno chef, ma non mi tiro indietro. Poco tempo fa è venuto Marcello, il fisioterapista, a mangiare a casa nostra e ho cucinato per lui un piatto a base di riso, carne e verdura. C’era anche un po’ di paprika, ci abbiamo aggiunto del piccante: gli è piaciuto.
Ti manca qualcosa di particolare dell’Olanda?
I miei amici e la mia famiglia sicuramente. Mi mancano anche gli Hagelslag, sono delle scaglie di cioccolato spalmate sul pane che si mangiano a colazione. Quando qualche parente o amico arriva dall’Olanda, cerco di farmene portare, perché qui in Italia non si trovano.
Hai uno stile particolare con cui ti vesti?
Non sono un tipo particolarmente attento ai vestiti costosi e alle marche. Magari mi metto dei vestiti semplici abbinandoli con capo un po' più ricercato, magari le scarpe.
E infine, il tuo idolo?
Federer, assolutamente. È un grande tennista ma soprattutto un grande uomo. Mi piacerebbe diventare come lui.