Storia e poesia di Gino Bartali raccontata ai ragazzi di oggi
Le parole giuste le ha trovate Vincenzo Nibali aggiustandosi con calma quella bella maglia gialla che porta in giro per le strade di Francia, come fecero tanti grandi prima di lui. «Mi piace la storia del ciclismo e Gino Bartali, da come me l’hanno raccontato, era un grande personaggio, quasi un mito. Mio padre e soprattutto mio nonno mi hanno parlato spesso di Bartali e Coppi, tanto che mi pare quasi di averli visti correre. Per me bimbo le loro imprese erano come delle fiabe, poi sono diventate storia, e poesia». Se non avete la fortuna di aver avuto un padre, o meglio un nonno, che vi ha raccontato la favola di Gino Bartali, dovete sapere che uno come lui è nato cent'anni fa e poi mai più.
Venuto al mondo prima della prima guerra, ha attraversato la seconda senza smettere di sognare, di sudare e di vincere - il primo Tour nel 1938, il secondo dieci anni più tardi, un esempio di longevità sportiva inaudita - e poi ci ha accompagnato attraverso la ricostruzione del dopoguerra, è stato al nostro fianco negli anni del boom, non si è perso quando in Italia saltavano per aria le piazze, i treni e le stazioni ed è arrivato con noi fino al Duemila. Accontentandosi di brontolare, con quella sua voce impastata dalle troppe sigarette, e di avvertirci che era tutto sbagliato, tutto da rifare. Difficile dargli torto, se ci guardiamo indietro. «Per l'Italia ho fatto quello che ho potuto», diceva. E davvero gli sembrava così, di non aver fatto niente di speciale, niente che altri non avrebbero fatto al suo posto. Come si sbagliava.
Uomini come Gino Bartali sono rarità, e se non altro per tutti gli ottantasei anni in cui è stato con noi lo abbiamo sempre trattato da grandissimo. La leggenda se l'era presa Coppi, con quella sua morte troppo precoce che lo aveva lasciato intatto, giovane per sempre, irraggiungibile. «Se n'è andato nell'unico posto dove non posso raggiungerlo», disse Gino.
Per anni ci siamo accontentati di elencare i suoi successi, che pure fanno di Bartali un fenomeno dello sport di ogni tempo. O al massimo di raccontare di quando la sua vittoria al Tour salvò - letteralmente - il Paese dalla guerra civile, al tempo dell'attentato a Togliatti. Poi è venuta alla luce una verità ancora più grande, che Gino non aveva mai raccontato neanche ad Adriana, sua moglie. Era successo durante la guerra, la Seconda. Gli avevano chiesto una mano per salvare gli ebrei toscani dai nazisti, e lui aveva offerto le sue gambe, nascondendo i documenti nel telaio della sua bicicletta e facendo la staffetta da Firenze al Vaticano, e ritorno. Quando i fascisti lo fermavano al posto di blocco, lo riconoscevano e lo lasciavano andare, «mi sto allenando per il Giro d'Italia». A casa, Adriana era persuasa che facesse "il lungo", l'allenamento più duro, e non si preoccupava quando non lo vedeva arrivare.
Pochi anni fa, Andrea, suo figlio, si è ricordato di quelle buffe favole che Gino gli raccontava per farlo addormentare: storie di biciclette, di tedeschi con i mitra, di buoni e di cattivi. Aveva sempre pensato che suo padre avesse una bella fantasia, non poteva sapere che era stato uno dei Giusti, come Perlasca, come Schindler, come tanti altri che le loro favole non le hanno raccontate. Non era elegante, era forte. Non era un eroe romantico e sottile, mangiava una pagnotta prima dell'inizio della corsa e in bici spaccava le uova sul manubrio e le buttava giù al volo, sempre pedalando. Per anni ha accettato di lasciarsi definire dal suo contrario: lui bigotto, Coppi bigamo, lui devoto, Coppi libero, lui antico, Coppi moderno. In realtà si sono rispettati sempre, uniti dal mestiere e dalla fatica. Bartali pianse per la fine esagerata del suo altro, e per quarant'anni ancora è andato avanti anche per ricordarlo. Oggi ricordare ai piú giovani chi è stato Gino Bartali è importante per ridarci l'orgoglio di essere italiani, per dirci che vale sempre la pena faticare tutta la vita dietro a un sogno. Tutti i traguardi contano, se hai sudato per raggiungerli.