Tiziana, la mia vita con Felice: «Lui vinceva il Giro e volevano rapirci le figlie»
«Ero poco più di una bambina, ma lui mi è piaciuto subito perché aveva gli occhi tristi. Ci siamo amati tantissimo. A volte mi sembra di non farcela senza di lui, ma vado avanti, non so nemmeno io come faccio».
di Paolo Aresi
«Vado avanti, a volte non so nemmeno io come faccio. Ma ci sono le mie figlie, i miei nipoti. Vado avanti». Tiziana Bersano è la moglie di Felice Gimondi, dal 7 novembre del 1968. In questo giorno di agosto Tiziana sta per partire, va in ferie nella sua Diano Marina, per la prima volta senza Felice. E, forse di nuovo per la prima volta, Tiziana accetta di parlare a ruota libera di Felice e della loro vita. Un anno fa, il 16 agosto, Felice moriva durante la vacanza a Giardini Naxos, mentre stava facendo il bagno nel mare, in un momento sereno in cui nessuno poteva immaginare l’epilogo di tutta la vita.
Signora Tiziana, ricorda quando ha conosciuto Felice?
«Era il 19 marzo del 1965, il giorno della Milano-Sanremo. Venne a trovarci dopo la gara Vittorio Adorni che era amico di mio nonno e con lui c’era questo ragazzo, Felice Gimondi, che aveva ventidue anni e che nessuno conosceva. Io avevo quindici anni e mezzo. Rimasi lì con mio nonno che parlava con Adorni e io e Felice eravamo seduti e ci guardavamo. Io ero poco più di una bambina, ma lui mi è piaciuto subito».
Perché?
«Perché aveva gli occhi tristi. Felice non era una persona triste, anzi. Ma io vidi quello sguardo e lo sentii triste. In realtà era uno sguardo umile, uno sguardo timido. Ecco, forse posso dire che mi sono innamorata in quel momento di Felice».
Quindi non lo ha conosciuto perché la sua squadra, la Salvarani, era venuta in ritiro in Riviera nel vostro albergo.
«No, l’ho conosciuto dopo la sua prima Milano-Sanremo. In effetti, la Salvarani veniva in albergo da noi, per questo mio nonno era diventato amico di Vittorio Adorni, ma quell’anno non erano venuti».
Felice diventò subito famoso. Terzo al Giro d’Italia, primo al Tour de France.
«Sì, certo, ma a me non interessava. Io non sono mai stata molto coinvolta dal ciclismo. Per me e per le mie figlie, Felice è sempre stato un marito e un padre come altri, la dimensione del campione non entrava in casa».
Felice non era una persona triste.
«Per niente. Certo, non era un estroverso, ma era una persona serena, aveva avuto una bella infanzia, piena di sacrifici, ma tranquilla. Non come me che ho perso la mamma quando avevo dieci anni. E poi Felice è stato gratificato dalla vita, certamente come sportivo, ma anche come uomo, il nostro è stato un matrimonio felice, ha avuto due figlie che gli vogliono ancora un gran bene».
Tiziana e Norma Gimondi
Il busto inaugurato a Capo Berta
La cerimonia a Capo Berta
Gli amici riuniti a Diano Marina
Gimondi fra i grandi del ciclismo
Dopo sposati, lei si è trasferita a Bergamo e non aveva nemmeno vent’anni, come è andata?
«E’ stato molto difficile; andammo ad abitare ad Almè, nella stessa casa dove vivevano i suoi genitori. Guardi, adesso non tornerei a vivere in Liguria, qui mi trovo bene. Ma all’inizio... i bergamaschi prima di accettarti, prima di darti la loro amicizia... non è mica facile. Mi sono sentita tanto sola in quei primi anni. E poi Felice non c’era mai, stava lontano anche per diverse settimane».
Però anche lei non ha mollato.
«Non ho mollato, no, come dite voi. Però ho sofferto tanto».
Felice lo diceva sempre negli ultimi anni: non voleva uscire la sera perché le voleva stare accanto, perché, diceva, «Quando era giovane, io ero sempre via, le ho fatto fare una vitaccia».
«Negli ultimi anni mi è stato tanto vicino. Io e Felice ci siamo amati tantissimo. A volte mi sembra di non farcela senza di lui. Mi ha aiutato una psicologa. Lui si preoccupava per me, voleva starmi sempre vicino: forse anche per una sorta di “riparazione”, può darsi, sì. Negli ultimi mesi eravamo sempre a casa insieme. Lui non stava bene, non era a posto, lo sapevamo. Però non ci aspettavamo quella fine improvvisa, in vacanza».
Lei non seguiva Felice nei suoi impegni ciclistici.
«No, io sono una persona timida, non mi piace dovermi esporre. In realtà abbiamo avuto pochi veri amici, con loro mi piaceva stare. Ma le grandi vetrine non mi interessavano. Comunque da giovane Felice l’ho seguito, dopo il Giro e dopo il Tour c’erano i criterium degli assi in giro per l’Europa e io andavo con lui. E poi il mondo del ciclismo entrava nella nostra casa, avevamo sempre ospiti dei ciclisti, a volte anche per settimane. Tony Houbrechts che era belga stava da noi anche per due mesi. E poi diversi altri venivano spesso, Ferretti, Santambrogio, De Muynck...».
E’ vero che quando correva, Felice non ha mai mangiato una pizza?
«E’ vero, lui era estremamente ligio, attento alla sua alimentazione, alla preparazione. Non uscivamo mai la sera, nemmeno per un cinema».
Lo faceva per senso del dovere o per la passione per la bicicletta?
«Prima di tutto per la passione. Il ciclismo per lui era qualcosa di fondamentale».
Ma lei non era gelosa della bicicletta?
«Le confesso che un pochino sì, a volte. Però cercavo di non farglielo pesare. Certo, in quegli anni, la bicicletta era al primo posto. Quando nacque Federica, nel settembre del 1973, lui era in giro per le gare, la vide dopo una settimana. Ma era normale».
Senta, ma lui in casa come viveva la rivalità con Merckx?
«Non l’ho mai visto in crisi per Eddy. Felice lo stimava tantissimo, sapeva che era il più forte e faceva di tutto per essere alla sua altezza. Ma si volevano bene, davvero. E quando hanno smesso di correre hanno continuato a essere amici, quando si vedevano si abbracciavano, si parlavano, si sorridevano. Le confesso una cosa».
Cosa?
«A un certo punto gli ho detto che Eddy sembrava il suo amante! Scherzi a parte, perché davvero erano molto attaccati e si volevano bene».
Quali sono stati i momenti più difficili della vostra vita?
«Siamo stati fortunati, siamo stati sempre bene insieme, siamo sempre andati d’accordo. Però... quando ha smesso di correre non è stato facile, la bicicletta per Felice era così importante... Poi mi ricordo quando seppe di Pantani, eravamo andati fuori a cena, era San Valentino... Fu un momento molto triste. Ma la cosa più brutta non l’ho mai raccontata a nessuno».
La ascolto.
«Fu quando Felice vinse il suo terzo Giro d’Italia».
Che cosa è successo?
«In quei giorni mi arrivò una telefonata strana, ma capitava, ogni tanto, e non ci facevo caso».
Che cosa vuole dire “strana”?
«Qualcuno che telefonava e diceva brutte cose, o minacciava, ma si capiva che erano balordi, mitomani. Anche quella volta misi giù il telefono. Squillò di nuovo dopo pochi secondi: una voce autoritaria mi diceva di non permettermi più una cosa del genere perché loro erano gente che non scherzava. Poi mi disse una serie di cose che nessuno poteva sapere, anche sulla nostra situazione economica. Mi sono spaventata».
Che cosa ha fatto?
«Felice stava correndo il Giro d’Italia, era il 1976, non potevo parlargliene in un momento simile, allora ne parlai con i carabinieri. Cominciammo a temere un rapimento delle bambine, erano gli anni dei sequestri di persone, della malavita che imperversava. I carabinieri mi diedero dei consigli, mi consigliarono di fare attenzione in particolare alle automobili, di capire se qualcuno mi seguiva. E, infatti, mi accorsi di un’automobile che si appostava vicino a casa, con dentro un tizio che leggeva il giornale. Io annotai il numero di targa, passai il numero ai carabinieri. Poi seppi che, in effetti, apparteneva a un pregiudicato. Ecco, quelli furono momenti terribili. Per questa ragione, all'ultimo giorno del Giro d’Italia, non andai all’hotel Andreola a Milano dove lo avremmo festeggiato per la vittoria. I carabinieri mi sconsigliarono di andare, io rimasi a casa con le bambine. Felice ci rimase molto male, ma quando tornò a casa gli spiegai tutto».
Mi scusi, ma perché la scelta di vivere a Paladina in un castello?
«E’ stato mio nonno. Lui era il padre di mia madre e per me era la persona più importante, venne a vivere vicino a noi, ad Almè. Un giorno vide questa cascina strana, fatiscente, e, siccome era in vendita, la comprò e ce la regalò. E così siamo andati ad abitarci, ma per renderla agibile dovemmo spenderci un sacco di soldi».
Il momento più gioioso della vita con Felice.
«Certamente la nascita delle figlie, il giorno in cui ci siamo sposati... E poi quando tornò dal campionato mondiale di Barcellona, quando aveva vinto. Ecco, lì era proprio radioso. E poi tanti altri momenti, anche piccoli, perché quando vuoi bene a una persona non c’è bisogno di cose fantastiche. Sono i piccoli momenti, tanti, che contano. Comunque facemmo alcuni viaggi belli in Messico, in Canada, a New York... Ci piaceva molto andare a Napoli. Ci siamo andati a ogni festa dell’Immacolata con una coppia di amici, ci stavamo per quattro o cinque giorni e andavamo a comprare le statuine dei presepi a San Gregorio Armeno. Che bella Napoli, come piaceva anche a Felice!».
Adesso come è la sua vita?
«Felice mi mancherà tantissimo, per sempre. Gliel’ho già detto, ci sono momenti in cui mi sembra di non farcela. La vigilia di Natale ero a casa sola e mi è successa una cosa, io mi sento sciocca, non so se lei crede a certe cose».
Mi racconti.
«Noi facciamo il cenone della vigilia, quindi era il 24 dicembre. Prima che arrivassero le mie figlie, i nipoti e tutti, io mi sono avvicinata al contenitore delle ceneri di Felice e ho cominciato a piangere e mi sentivo davvero tanto male; in quel momento è arrivata una farfalla e si è posata sul dorso della mia mano. E io ho pensato che era Felice, che me la mandava e che mi era vicino. Una farfalla in casa il 24 di dicembre, credo non sia una cosa così normale».