Denis Urubko, il re degli Ottomila che ama Bergamo e vive a Nembro
«Ci sono gli alpinisti, e poi ci sono i fuoriclasse... Urubko è un fuoriclasse d’altri tempi». Parola di Hervé Barmasse, famosa guida alpina del Cervino. Denis Urubko è il quindicesimo uomo nella storia ad aver salito tutti i quattordici ottomila e il nono ad averli scalati senza ossigeno. Russo nazionalizzato polacco, è nato a Nevinnomyssk il 29 luglio 1973. Da alcuni anni risiede con la famiglia a Nembro. Oltre alle più alte vette del pianeta, ha realizzato la prima salita invernale di due ottomila, il Makalu e il Gasherbrum II, in compagnia di Simone Moro. Ha anche aperto tre nuove vie su tre diversi ottomila. Da giovane era appassionato al teatro, ma a vent ’anni si è trasferito nel Kazakhistan per poter essere arruolato nel gruppo sportivo militare e dedicarsi a tempo pieno all’alpinismo. La sua amicizia con Moro e Mario Curnis lo ha portato nel ‘99 a compiere la salita dei cinque settemila della Russia, impresa che è riuscito a completare in 42 giorni, e a scalare le Alpi. Poi, dal 2000, le grandi montagne dell’Himalaya, completate nel 2009 con l’apertura di una nuova via sulla parete sud-est del Cho Oyu (con Boris Dedeshko), ascensione che gli è valsa il premio Piolet d’Or, prestigioso trofeo che ha deciso di donare alla sezione di Bergamo del Club Alpino Italiano.
«La vita è strana, la paura è anche una strana cosa. Non sai da dove arriva e neppure perché se ne va. Nella vita non sai mai che cosa può succedere. Pensiamo e ragioniamo e cerchiamo di prevedere ogni cosa, ma alla fine si presenta sempre un elemento di casualità. Mi ricordo un mattino, mi ero appena svegliato nella mia piccola tenda, ero solo e mi trovavo all’ultimo campo prima di raggiungere la vetta del Monte Lhotse, a 8.506 metri di quota. Uscii dalla tenda e guardai in alto e decisi che era troppo rischioso, che era meglio rinunciare e tornare indietro. Smontai il campo, preparai tutto e mi incamminai verso valle. Ero sceso di duecento metri e avevo camminato per mezz’ora quando mi fermai e tornai a guardare la cima del Lhotse. E in quel momento decisi che avrei provato: tornai a salire, fissai di nuovo il campo dove mi trovavo prima, montai la tenda e poi partii per questa solitaria, nel tentativo di aprire una via nuova, senza corde... Avevo avuto paura e poi la paura era passata e ce l’avevo fatta, avevo raggiunto la vetta. Difficile trovare una spiegazione».
Denis, lei è nato nel Caucaso, poi ha vissuto in Kazakhstan, ma da qualche anno ha scelto Nembro come sua casa. Perché?
«Perché ho conosciuto delle persone che mi hanno conquistato. Nel 1999 ho incontrato Simone Moro e lui è una persona molto speciale, un grande alpinista, un uomo di valore. Un uomo di intelligenza particolare, sempre impegnato a pensare, a escogitare cose nuove. Poi ho incontrato un altro bergamasco, Franco Acerbis, un grande imprenditore, un’altra persona la cui testa non si ferma mai, che elabora sempre progetti nuovi, orizzonti, pensieri. Questi due incontri sono stati importanti. E quello con un altro alpinista, Mario Curnis, qui di Nembro, grande persona. Con Simone Moro ho conosciuto anche questo ambiente, le Alpi».
Come si trova in Val Seriana?
«Grazie a queste amicizie, ho scoperto le vostre valli, la vostra gente. Mi sono sentito subito accolto, accettato. Qui tutti amano la montagna, sanno che cosa è l’alpinismo, conoscono il valore di questo sport. Otto anni fa sono venuto a vivere a Bondo Petello, e poi mi sono trasferito a Nembro in questa casa che è l’ultima del paese, al confine con il monte, sopra di me c’è lo Zuccarello».
Lei è cresciuto nel Caucaso.
«Sì, devo dire che l’ambiente non è molto diverso, dal punto di vista naturale. Certo, nel Caucaso abbiamo montagne che superano i cinquemila metri, ma le vallate sono simili alle vostre. Da noi la cultura dell’alpinismo non è così popolare e sviluppata come da voi. Qui tutti conoscono nomi di alpinisti come Kukuzka o Kurticka o Simone Moro. Da noi non c’è questa conoscenza... Mi scusi, desidera un caffè?».
Sì, grazie.
«Ma vuole un caffè italiano o russo?».
Come lo beve lei. Come sarebbe un caffè russo?
«Le preparo il mio caffè. Caffè molto lungo, con un po’ di latte, un po’ di spezie...».
Lei è cittadino polacco.
«Sì, mi piace la Polonia, anche lì c’è una bella cultura della montagna, anche se le montagne sono poche e poco accessibili. Per fare una scalata bisogna avere tanti permessi burocratici... non c’è libertà come da voi».
Come ha cominciato a scalare?
«La mia è stata una vita particolare. Sono nato nel 1973 in un villaggio del Caucaso russo, mia mamma era musicista e insegnava alla scuola materna, papà era un ingegnere, specializzato in geodesia. Ho una sorella di tre anni più giovane. Papà aveva una grande passione per la caccia e la pesca, andava spesso a funghi. Io lo accompagnavo sempre, ma ero un bambino gracile, soffrivo di forti allergie. Il medico disse ai miei genitori che non avrei superato i vent’anni, a meno che ci fossimo trasferiti in un posto diverso, con clima differente. Così i miei decisero di abbandonare il Caucaso: ci trasferimmo nell’isola di Sakhalin, nell’estremo oriente della Russia, vicino al Giappone. Là il clima è molto più freddo e più umido e io cominciai a stare meglio. Avevo quattordici anni. I miei genitori abitano ancora là... A Sakhalin ho cominciato a fare dell’alpinismo. Le quote sono basse, ma le ascensioni interessanti, ho fatto delle creste invernali davvero non semplici perché bisogna considerare il gelo e il vento...».
Lei ha studiato a Vladivostok, al limite della Siberia.
«Sì, ho studiato teatro. Sono stati anni molto belli, colorati, pieni di emozioni, dai diciotto fino ai ventuno anni. Poi però ho deciso di andare in Kazakhstan, perché volevo vivere vicino alle montagne. La cima più alta nel territorio Kazako supera i settemila metri. Sono entrato nell’esercito del Kazakhstan con il grado di tenente e ho avuto la possibilità di fare l’alpinista. Nel 1999, avevo ventisei anni, ho incontrato Simone Moro e Mario Curnis e la mia vita è cambiata. Li ho conosciuti perché loro fecero un’inizitiva in memoria di Anatolij Bukreev, alpinista kazako loro amico. Bukreev era morto il giorno di Natale del 1997, travolto da una valanga sull’Annapurna mentre con Dimitri Sobolev e Simone Moro stavano cercando di aprire una via nuova. Moro era più in alto di Bukreev e Sobolev e si salvò. Bukreev era diventato famoso anche a causa di una spedizione sull’Everest, alla guida di un gruppo di “turisti”, una storia tragica che ha ispirato il film Everest».
Ha fatto amicizia con Moro e Curnis.
«Sì, subito. Per ricordare Bukreev facemmo i cinque settemila dell’ex Unione Sovietica. Era la mia prima esperienza con alpinisti stranieri, ci trovammo subito bene. Adesso abito qui e questa casa era di Mario Curnis. Per la prima volta venni in Italia nel 2000, ospite di Bergamo, conobbi Paolo Valoti e Valerio Bettoni, mi alloggiarono nell’hotel San Marco. Andavo ad allenarmi sulle Mura, mi arrampicavo. Mi sono innamorato delle Mura. Nel 2000 insieme a Moro feci il mio primo ottomila, l’Everest. Salii fino in cima senza bombola di ossigeno, io, che avevo avuto l’asma e avevo sofferto di allergia... Vede quando le dico che la vita è strana. Da allora ho fatto altre salite con Simone Moro. Una volta l’ho accompagnato in Annapurna. Al campo base, per due settimane rimase con noi anche Franco Acerbis».
Conosce le montagne bergamasche?
«Le conosco bene, le ho percorse tutte: Pizzo di Coca, Presolana, Pizzo Redorta, Scais, Recastello, Diavolo... questo è un paradiso per un alpinista, anche perché tutti gli abitanti ti capiscono, sanno che cosa significa essere alpinista».
Che cosa la colpisce di Bergamo?
«Mi colpisce che tutti si danno da fare, che ognuno cerca di fare qualcosa di nuovo, di più. Voi non vi rendete conto della vostra fortuna, della vostra natura, del clima, della vostra storia. Non vi rendete conto neppure delle vostre qualità umane. Sa che cosa le dico? Che sono più felici gli immigrati come me di essere qui. Più felici degli stessi residenti bergamaschi. Credo che anche il discorso dell’accoglienza degli immigrati in difficoltà cambierebbe se capiste quanto siete bravi e fortunati e quante risorse e capacità avete».
Dobbiamo credere di più in noi stessi?
«Non sono io che posso dire queste cose, ma forse sì».
Se credi in te stesso hai meno paura.
«Certo, anche in montagna è così».
Ha notato che in Italia, anche a Bergamo, non si fanno più figli?
«Sì, l’ho notato, e non capisco perché. Io ho otto figli, in Russia. Vengono a trovarmi, poi vanno. Qui avete tutto per potere mettere al mondo altre vite, per accogliere, per essere felici».
Lei ha salito tutti gli ottomila del pianeta. E adesso?
«Ci sono sempre delle sfide nuove. Anche qui nelle nostre valli. Tutti i giorni vado ad arrampicare. L’altro giorno ero sulle falesie di Albino. Ci sono vie nuove da aprire sulle grandi montagne, percorsi invernali, difficilissimi. Continuo a scalare, anche in solitaria, mi piace sempre tantissimo. Ogni volta è un mettersi alla prova, è come una droga. Una cosa è importante: rendersi conto del cambiamento, dei propri limiti. Io oggi non sono forte come vent’anni fa, però ho più esperienza. È fondamentale rendersene conto per capire quello che si può fare e quello che invece è meglio evitare. Il mio fisico si è indebolito in vent’anni, ma il mio pensiero è diventato più forte».
Di notte, a sette-ottomila metri, ci sono tante stelle.
«Ricordo una notte nell’inverno del 2003, ero nel Karakorum, a 7800 metri e l’aria era secca e chiara. Io ero seduto e guardavo le stelle che non stavano più soltanto sopra di me, ma erano tutte intorno a me e mi sembrava di poterle afferrare. Ero come seduto nello spazio, in mezzo al cosmo».
Nelle sue ascese in questi posti sperduti, non ha mai incontrato niente di insolito?
«Sì, due volte. Stavo salendo il Tian Shan, in Kazakhstan, era il 2011. Sentii un suono, come di gong, di monaci buddisti, durò per cinque minuti, era come una musica. Poi il suono si spense, nel frattempo io e il mio compagno uscimmo, ma non c’era niente, solo la notte. Una seconda volta fu ancora nel 2011, ma ero da solo, sui settemila metri. Era mezzanotte. Improvvisamente la tenda venne investita da una grande luce e di nuovo sentii questa strana musica. Allora in fretta uscii dal sacco a pelo e dalla tenda, ma non vidi nulla. Però mi ricordo che in quei momenti provai un gran senso di paura».
Il suo sogno?
«Un piccolo sogno: mi piacerebbe aprire una scuola di montagna, di roccia, di arrampicata sportiva, qui in valle, per i ragazzi, per i giovani, ma non soltanto».