Vita di un piccolo uomo santo

Foto BergamoPost/Devid Rotasperti.
Avvertenza. Ogni risposta dell’intervistato si apre o si chiude con la frase: «Con la Grazia di Dio». La riportiamo solo qualche volta per ragioni di spazio. Voi lettori sappiate che c’è.
Come andò che Pietro Apassiti divenne fra Aquilino?
«La Grazia di Dio mi ha fatto il privilegio della vocazione quando ancora ero piccolo. Ogni volta che a scuola o a catechismo mi davano un foglio con la domanda: “Che cosa vuoi fare da grande: il pilota, il pompiere, il macchinista?”, io scrivevo: “Voglio essere missionario”. Uno di questi bigliettini, dato senza nessun valore, ha aperto la strada».
Quanti anni aveva?
«Dodici. Una domenica i frati cappuccini vennero a celebrare la Messa Grande a Sforzatica e alla fine dissi: “Voglio essere come questi”. Andai con papà e mamma al convento di Albino. Un frate con tono severo mi apostrofò: “Guarda che non è questione di essere frati o meno: sai che dovrai lasciare il papà e la mamma, i tuoi fratelli, la tua casa? Non hai paura? Guarda che fare il missionario vuol dire andare lontano e incontrare gente sconosciuta”. Con entusiasmo risposi: “Sono pronto”».
Che determinazione...
«Quando si è bambini si pensa per sé a qualcosa di grande, anche se non si sa che cosa significhi».
E quando si è vecchi?
«Quell’entusiasmo in me non è mai venuto meno. Si vive una volta sola e io ho avuto la grazia di realizzare tutti i sogni che avevo da piccolo. Come faccio a non essere contento?».
Fare il questuante era un sogno che aveva fin da piccolo?
«Lo ammetto, all’inizio è stata dura. Avevo ventidue anni e l’ho fatto dal ‘57 al ‘59. Andavo di casa in casa col carretto nei paesi del Varesotto a chiedere uova e frumento. In genere me ne davano una scodella e per fare un sacco ce ne voleva. Un giorno verso Bugigate entro in un cortile e chiedo a un signore se mi dà un po’ di legna. Quello si mette a urlare e minaccia di prendermi a bastonate. Da una casa esce la figlia allarmata: “Venga padre, perché quest’uomo è pericoloso e la picchia sul serio”. “Ma perché mai - rispondo -, gli ho solo chiesto se mi offriva un po’ di legna, non pretendo niente”. Fatto sta che quella donna mi fece uscire da un’altra parte. Un’altra volta, invece, a Venegono un tale mi avverte: “Stia attento a quello là, è un comunista”. Entro in casa sua e gli dico: “Buongiorno, volevo sapere se ha qualche uovo per i frati”. Pure lui si mette a gridare, ma dopo un po’ mi dice: “Aspetti un momento”. Torna con otto uova: non mi era mai capitato. Quando sono uscito la gente era tutta meravigliata».
Però che umiliazione andare a elemosinare...
«San Francesco voleva che i frati, quando il lavoro interno non bastava, andassero a fare la questua. Alcuni anni dopo ho avuto la grazia di accompagnare frate Aurelio di Ossimo a fare la questua nelle campagne del Pavese. Era un sant’uomo e sono rimasto sbalordito: la gente teneva il sacco pronto per lui e i contadini quando lo vedevano arrivare fermavano le trebbiatrici e gli andavano incontro. Il suo arrivo era considerato una benedizione. Era un uomo di poche parole, sempre con la corona del rosario in mano. La domenica, dopo una settimana di lavoro, si metteva in chiesa alle 5.30 e usciva a mezzogiorno. Rientrava alle due e pregava fino a tarda sera. “Sarai un po’ stanco, vai a riposare”, gli dicevo. E lui: “Non posso, devo saldare i miei debiti con i benefattori: h promesso che avrei pregato per loro”».
Perché lei ha scelto di essere frate ma senza diventare sacerdote?
«Non mi mancava la possibilità, ma San Francesco ha realizzato la sua missione rimanendo laico. Nel nostro ordine la forza viva è essere fratelli e all’ultimo posto, come le mamme nella casa: lavorare, accudire, sbrigare i servizi più umili senza farne un problema. Anche tra noi frati c’è sempre stato un po’ di clericalismo e se non si è sacerdoti è come se non ci si fosse realizzati. Ma Cristo va servito con tutto l’entusiasmo, senza pensare che mi manchi qualcosa se non posso confessare o celebrare la Messa. Io mi sento completo così e nella mia vita ho potuto fare quello che ho fatto perché ero un semplice fratello».
Che cosa ha fatto?
«Ho avuto la grazia di stare con gli ammalati, di portare la minestra in quartieri poverissimi, di visitare carcerati in condizioni tremende. Se fossi stato sacerdote, con gli impegni sociali e i doveri connessi, non avrei potuto farlo. E poi, non avendo autorità, ho meno possibilità di cadere e questo mi permette di restare umile e di dire tutti i giorni: “Signore perdonami perché non sono quello che dovrei essere”. Questa umiltà per me è un abito».
Lei voleva fare il missionario, ma i superiori le hanno permesso di partire solo a 54 anni.
«Prima ho fatto il cuciniere, il sacrista, il portinaio. Nel ‘72 ho avuto la grazia di fare la patente e portavo in giro i vecchi frati, li assistevo. Un giorno conosco frate Alberto Beretta, il fratello di Gianna Beretta Molla, che era da poco rientrato dal Brasile. Mentre siamo in viaggio per Bologna mi dice: “Cosa fai qui, iscriviti a un corso di infermiere e vieni con me in Brasile”. La Provvidenza, eh! Dopo un corso di tre anni all’ospedale San Carlo di Milano, mi hanno mandato a Bergamo ad assistere i frati malati. Dovevo restare tre mesi e sono rimasto quattordici anni, dal ‘75 all’89»
Un altro rinvio...
«È stato un periodo bellissimo: ho conosciuto frati straordinari e tante persone illustri che venivano da loro: Luigi Santucci, Marcello Candia, il pittore Messina. Ho assistito a tante agonie vissute con una fede meravigliosa. Ho imparato che il dolore è prezioso».
E finalmente a 54 anni ha potuto partire per il Brasile.
«I miei fratelli e gli amici mi hanno detto che ero matto. Ho risposto: “Guardate che io vado a lavorare per uno la cui parola è sicura”. Sono rimasto giù 25 anni».
Poi due anni fa, rientrato per un breve periodo in Italia, le è stato diagnosticato un tumore al pancreas.
«Per me è stato come il formaggio sulla pastasciutta. È facile dare, ma quando sei tu ad essere ammalato, improvvisamente scende la saracinesca. “Oddio cosa mi succede”, mi sono detto all’inizio. Poi ho pensato: “Signore, l’hai voluto tu e devo dirti grazie perché se stavo in Brasile non avrei avuto modo di curarmi. Invece qui in ospedale a Bergamo ho rivisto i miei frati, i miei parenti, il padre provinciale è venuto a trovarmi: che gioia. L’unico sogno che avevo era quello di poter tornare a dire “ciao” per l’ultima volta ai miei amici brasiliani"».
Desiderio esaudito.
«Dopo le chemio mi sono ripreso un po’, per cui i medici mi hanno permesso di partire. Sono andato con mio fratello e con il mio ex parroco e là ho fatto quattromila chilometri girando per il Paese. Ero felice e sono stato benissimo».
E al ritorno?
«Il tumore non c’era più».
Un miracolo.
«Non so, bisogna essere prudenti. Io non ho mai chiesto al Signore la grazia di guarire. Ho un’età avanzata e una vita piena alle spalle, cosa voglio di più? Al Signore avevo detto: “Ascolta, ho visto tanti papà, tante mamme e tanti giovani malati: aiuta loro"».
Non sa neanche a quale santo dire grazie.
«Forse perché mi hanno preso subito, curato subito. Il Signore mi ha dato anche questo. E poi la mia serenità potrebbe avermi aiutato. Nel mio caso, comunque, i medici hanno avuto la vista corta (ride...), mi avevano pronosticato 3-4 mesi di vita, ma hanno fatto una gaffe perché sono ancora qui!».
Adesso che ha il compito di assistere i malati al Papa Giovanni, lei è diventato amico di molti medici.
«Sono i benefattori dell’uomo, lo dobbiamo a loro se la vita si è allungata. Io prego e faccio pregare per loro perché abbiano luce, umiltà e amore. E perché non si abituino al dolore degli altri. Il Signore fa miracoli con le loro mani».
E i malati?
«Io sono sicuro che il Signore non li abbandonerà, è un padre e non ci può lasciar soli, tanto più in questi momenti. Me lo aveva detto anche don Sergio Colombo quando sono andato a trovarlo un mese prima che morisse. Il lavoro che sto facendo mi arricchisce molto. Ricevo tanti esempi di meravigliosa umanità. L’altro giorno uno della mia età mi fa: “Padre, sono già andato due volte alla porta di San Pietro, era bellissimo e mi sono quasi arrabbiato quando sono tornato indietro”. Mi ha salutato per l’ultima volta: “Ciao, io vado”. Mi ha dato una lezione straordinaria. Bisogna prepararsi tutti i giorni. La grazia che chiedo ora al Signore è che mi dia un pezzettino del dolore di tutti quelli che ho accompagnato a morire, in modo da purificarmi. Riuscirò? Non lo so, ma spero che mi ascolti».
Quanta gente ha convertito nella sua vita?
«Nessuno. Ho solo cercato di mostrare con la mia dedizione e il mio amore autentico ai poveri che l’abito ricevuto da San Francesco è un segno di libertà. Avrà prodotto risultati? Se guardo indietro io so che ho fatto polvere e nient’altro, però chissà mai che qualcuno sia rimasto colpito. Io non sono un predicatore né ho fatto cose grandi. In Brasile ho aiutato tanta povera gente a mettersi a posto con la pensione, perché neppure conoscevano i loro diritti; ho accompagnato e dato medicine ai lebbrosi, frequentato carceri nelle quali la nostra sola presenza rendeva meno violenti i secondini. Sempre il Signore mi ha accompagnato e mille volte ho toccato con mano che Lui è più fedele di noi. Per me la fede è comprovata. E nessun uomo è mai senza un briciolo di fede. Bisogna aver fede, perché la fede fa miracoli».
Quanto prega lei?
«Mattina, mezzogiorno e sera. E in ogni momento in cui attendo qualcuno. Mentre la aspettavo, dicevo il rosario. E di notte quando mi sveglio dico al Signore: “Io sono qui nel letto, quieto e sereno. Guarda quanta gente vive nelle strade e forse ha freddo e quanti domani dovranno affrontare problemi grandi”. Poi arriva il mattino e dico: “Signore grazie, mi dai ancora di vedere l’alba”. La preghiera è un respiro, è un filo che lega il nostro trambusto quotidiano al cielo e ci fa sentire forti».