Giorgio Gori, "l'alieno" che spera ancora in un Partito Democratico diverso
Ogni proposta del sindaco è stata cassata. A Bergamo il candidato Majorino non "scalda". E nella sfida Bonaccini-Schlein ecco chi sta con chi
di Wainer Preda
«Proviamoci, tanto...». Il militante del Partito Democratico, brizzolato, sulla cinquantina, esce dall’auditorium di Piazza della Libertà, non troppo convinto. Ha appena sentito parlare il candidato alla presidenza della Regione Pierfrancesco Majorino. «Lui è notevole, ma...», aggiunge l’amico, barba fricchettona, stretto nel cappotto blu, per affrontare le intemperie della sera.
Fuori piove e fa un freddo cane. Dentro Majorino ha provato a scaldare la platea con le parole, ma c’è riuscito solo in parte. Erano un paio di centinaia sabato 3 dicembre ad ascoltarlo. In platea, più di una sedia vuota a dire il vero. In prima fila tutti gli alti papaveri del Partito Democratico bergamasco. Ci sono Giorgio Gori, Pasquale Gandolfi, Jacopo Scandella, Davide Casati, Antonio Misiani e Vinicio Peluffo. E poi Elena Carnevali, Marzia Marchesi, Sergio Gandi e Matteo Rossi.
Biondo, cravatta blu, erre moscia che fa tanto radical chic, eloquio forbito, Majorino sembra la versione invecchiata di Gianni Cuperlo, ma del triestino non ha la visione. Preferisce il ragionamento, rifugge frasi a effetto, e quando gliene scappa una («Fontana piccolo Bolsonaro») quasi se ne pente.
Parla di trasporti che non funzionano, di treni che mancano (ma con gli investimenti della Regione ne sono entrati in servizio 81 nuovi dal 2021), di necessità di sicurezza sui convogli (ma quando misero i vigilantes, il Pd insorse), di riformare in quattro anni la sanità pubblica (dopo che la Regione ha già speso 800 milioni).
Di tagliare le liste d’attesa. Insomma, di tutte le debolezze che i lombardi conoscono a memoria. L’impressione però è che ne parli senza partecipazione. Da un osservatorio distante dalla realtà. Perché sui treni, per esempio, suggerisce di renderli gratuiti per i giovani. Quando l’unica proposta rivoluzionaria (e di sinistra), invero, sarebbe la gratuità (o quasi) per chi lavora. Perché nella Bassa Bergamasca non vuole insediamenti della logistica, dopo aver professato globalizzazione per decenni.
Perché su Aler, per esempio, dice che va cambiata. Ma ignora che nelle case popolari, la stragrande maggioranza vota Lega e Meloni. Perché, lì, il Pd è, a torto o ragione, il “nemico” che ha riempito gli appartamenti di immigrati, complicando la vita agli inquilini. Così come, quando parla di lavoro, usa infiniti giri di parole e solo alla fine arriva, timidamente, ad abbozzare il salario minimo garantito, ma non per tutti.
Insomma, Majorino sembra affetto dallo strabismo tipico del “palazzo”. Non buca. Non emoziona. E dopo il caso Soumahoro, rischia addirittura lo scivolone esaltando il “diritto alla bellezza” per i lombardi, quando i lombardi si accontenterebbero di quello alla normalità.
I dolori di Re Giorgio
Prima di Majorino, era salito sul palco Giorgio Gori. Per il sindaco applausi tiepidi, molto tiepidi. Quasi la sua presenza fosse mal digerita. Gori parla con la mano in tasca. Strano, non gli capita mai. Solo poche ore prima (...)