Di Ezio Foresti*
Il cardinale Mezzofanti era uno che con le lingue ci sapeva fare. Ne conosceva una quarantina, tra le quali l’ebraico, l’arabo, il neo-aramaico-caldeo, il copto, l’armeno antico, l’armeno moderno e il persiano, che scriveva e parlava. La sua straordinaria capacità di apprendimento e la sensibilità musicale che gli faceva riconoscere all’istante i suoni furono però messe a dura prova dal nostro Angelo Maj.
I due porporati stavano discutendo sulla comprensibilità dei diversi dialetti, e Mezzofanti sfidò Maj a dirgli una frase in bergamasco, che lui avrebbe certamente compreso. Il cardinale di Schilpario se ne uscì con “Gh’n’iv gna ü gna ù? Gh’n’ ó gna ü gna mé”. L’altro ribatté che questa non si poteva considerare una lingua, ma un miagolio di gatti. E fatichiamo a dargli torto.
La verità è che ci piace usare la nostra lingua, pur ruvida e gutturale, per creare collisioni di vocali e consonanti all’apparenza criptiche, che hanno però un senso o una morale. In questo caso è la condivisione di uno stato di miseria, in cui nessuno dei due protagonisti della frase possiede alcunché.
Ma ci sono altri gustosi esempi, riportati da Umberto Zanetti nella sua Rapsodia Bergamasca. Tralasciando i più noti, è divertente il ritmico dialogo “Tò Tóne, tö tat ai” “Sé tata, töró tat ai”, in cui un padre dice al figlio che gli dà il necessario per acquistare tanto aglio, e il figlio conferma che farà proprio così. Ma ai più rimane in testa solo una sorta di balbettio al quale è difficile attribuire un significato.
Ancora più intrigante è il falsamente innocuo “Car a’ u, ca l’sì che caràter ca gh’ì”, in apparenza solo un moderato ammonimento per una persona dal carattere difficile. Ma la nostra arguzia è riuscita a nascondere, all’interno della frase due termini derisori come calsì e caghì, sapientemente dissimulate tra rime e allitterazioni. Se qualcuno vi dice che la nostra è una lingua incapace di sottigliezze, sapete come rispondere.
*in memoria