Di Ezio Foresti*
I primi freddi autunnali fanno inevitabilmente correre il pensiero alla fiamadina, l’accensione serale della stüa o del camì per togliere l’umidità e scaldare un po’ l’ambiente mentre si mangia. Per compiere l’operazione è necessaria una materia prima che da noi abbonda, la lègna.
Naturalmente esiste tutta una teoria sulle tipologie di alberi più adatti a fornire il combustibile domestico, dalla pighéra che la brüsa söbet ma la rènd mia, fino alla castègna, che la réda e la düra.
Ci sono però anche delle classificazioni più pittoresche, che abbiamo ritrovato nei meandri del vocabolario e che riportiamo alla luce, in vista di un possibile riutilizzo. Se si pensa di alzare la temperatura di casa, è opportuno dotarsi di lègna fórta, buna o che la té ’l föch, tre modi per definirne l’efficacia. Di scarso rendimento è invece la lègna dólsa o che la té mia ol föch, come quella di murù, pòbla e tèi, cioè gelso, pioppo e tiglio.
Quando si tratta di accendere il fuoco, è preferibile invece usare la lègna che la lüs cóm ü solferì, facilmente infiammabile e quindi perfetta per l’innesco. Tiraboschi la definisce, con brillantezza, «legna seccaticcia o incendevole». La lègna bastunada è di dimensioni generose, mentre la lègna menüda o de fà fritade è quella sottile. Di scarso valore infine è la lègna mórta, il «seccume sugli alberi e sulle piante».
In questo periodo è un’azione frequente indà per lègna, cioè recarsi nei boschi alla ricerca di rami secchi da ardere. Dopo di che il raccolto viene ordinatamente accatastato sulla mèda de lègna, la catasta spesso costruita con meticolosa cura delle geometrie e degli equilibri. In tutto questo non poteva mancare il metaforico ammonimento esistenziale: evitare di cargàs sö de lègna érda. La legna verde non fa fuoco ma fumo, ed è inutile ai nostri fini. Come molte esperienze e relazioni della nostra vita.
*in memoria