Fra' Galgario, un grande di Bergamo (che si può vedere solo a Milano)
Quando si passa in largo del Galgario, tra la vecchia torre e la facciata della chiesa sconsacrata oggi annessa alla Caserma, viene sempre da pensare a quel grande e fantasmatico personaggio che legò la sua vita e il suo nome a quel luogo. Ovviamente si tratta di fra’ Vittore Ghislandi, universalmente noto come fra’ Galgario, uno dei grandi pittori del '700 europeo. Lui era infatti frate Paolotto (cioè dell’ordine di San Francesco di Paola) e aveva la sua cella in quel convento che pure il padre Domenico, pittore di ben minori ambizioni, aveva contribuito a decorare di affreschi.
[Vittore Ghislandi detto Fra' Galgario, autoritratto]
Fra’ Vittore era tipo certamente estroverso, e stava poco tra quelle mura, se esaminiamo la galleria di personaggi che lo hanno reso giustamente celebre come ritrattista di una capacità “penetrante” come solo Goya l’ebbe in quel secolo. Peccato che se la topografia cittadina evoca un bergamasco “globale” come è stato fra’ Galgario, poi per ammirarne le opere, stante la chiusura prolungatissima della Carrara, si debba andare in trasferta a Milano.
È nella metropoli ambrosiana, al museo Poldi Pezzoli, che è allestita una sala assolutamente stratosferica di ritratti del nostro, dominata in particolare, da quel Gentiluomo con Tricorno, personaggio la cui identità non ci è nota ma che faceva parte dell’ordine costantiniano di San Giorgio. Il titolo del quadro viene dal grande copricapo in feltro nero profilato con un gallone d’argento e calato sulla fronte. Porta una parrucca corta, legata a coda con un nastro annodato sul davanti come una cravatta; è una foggia di origine militare (detta tye-wig) diffusa tra gli ufficiali inglesi fin dal 1713, ma qui è solo moda.
[Gentiluomo con Tricorno]
Fra’ Galgario è uno di quei pittori in cui una città sembra specchiarsi: i suoi tipi umani, trasversali a tutti i ceti sociali anche se con ovvia prevalenza dell’aristocrazia, raccontano di una psicologia sempre molto concreta, di una nobiltà che comunque tiene sempre i piedi per terra, pur dando a volte uno spettacolo vagamente decadente. Sul “dna” bergamasco di fra’ Galgario negli anni 70 si aprì una memorabile disputa tra Rodolfo Pallucchini, soprintendente veneziano, che lo vedeva artista satellite dell’arte lagunare (fra’ Galgario ebbe un lungo periodo di formazione a Venezia, prima del definitivo ritorno nella sua città natale, proprio all’alba del 1700) e Giovanni Testori, che con una replica memorabile, ne rivendicò la sua assoluta “bergamaschità”. I toni di questa replica furono talmente perentori, e sostenuti da una scrittura talmente avvincente, da chiudere immediatamente la disputa: fra Galgario da allora è tornato ad essere al 100% bergamasco. Cioè bandiera di una città che poteva vantare una cultura pittorica propria, perfettamente identificabile nel tracciato storico che da Moroni, attraverso Cavagna e Ceresa, approdava appunto al nostro frate.
[Ritratto del Conte Giovanni Secco Suardo con domestico]
C’è anche una vasta aneddottica attorno a questo grande maestro, sintomatica di questo suo stile molto bergamasco di approcciare la pittura. La prima riguarda quella dimensione di golosità della sua pittura, per cui andava sempre a cercare gli effetti più ammalianti, arrivando a preparare lui stesso quelle lacche che ancor oggi fanno di certi suoi ritratti qualcosa che nessun stilista né estetista sarebbe mai riuscito a garantire a quei personaggi. L’altro aspetto riguarda quella dimensione fisica della sua pittura, che in certi momenti lo portava a lasciare il pennello e a lavorare di polpastrello, lasciando la sua impronta digitale come firma che vale più di qualsiasi firma. Speriamo di poter presto riammirare questo grande, senza dover andare in trasferta…