Gorle, le Madonne senza aureola dipinte da don Carlo Tarantini
I dipinti li ha già venduti tutti: ventotto quadri, ciascuno dedicato a Maria, madre di Gesù. Ciascuno che riporta un frangente, un momento della sua vita, un’interpretazione, un simbolo. Ciascun quadro una festa di colori, di segni sgorgati dai pastelli, la donna con il suo bambino e suggerisce qualcosa di profondo, di essenziale. Maria è la donna che abbraccia il bambino, lo protegge, lo custodisce, lo scalda. Lo proietta verso la vita, anche nel suo dolore. L’autore dei quadri è don Carlo Tarantini, prete ormai da quasi cinquant’anni. La sua mostra nella biblioteca di Gorle è aperta fino al 30 dicembre, tutti i pomeriggi e nei giorni festivi anche la mattina. Un successo che nemmeno lui, che pure dipinge professionalmente dal 1978, si aspettava.
Don Carlo, è martedì pomeriggio e i visitatori continuano ad affluire. I ventotto quadri li ha venduti in tre giorni, lei che cosa ne pensa?
«Per me è una soddisfazione grande, il segno che questo mie immagini sono piaciute. Sono immagini di Maria, ma sono immagini che simboleggiano anche l’essere donna, l’essere madre. La mostra è composta da questi quadri dipinti appositamente, e da altri che riguardano sempre figure femminili, dipinte in passato. Questa è una tappa particolare del mio percorso, che non avrei mai immaginato quando frequentavo l’Accademia Carrara».
Lei è stato il primo prete a varcare la soglia della scuola di pittura.
«Sì. Era il 1974, ebbi un permesso speciale dal vescovo Clemente Gaddi. Era un momento difficile, io non sapevo bene che cosa dovevo fare, come pormi rispetto alla mia vocazione. Quando andai in Accademia, il primo giorno mi misero davanti a un gesso che riproduceva una scultura del Bernini, dovevo stare ore a copiarlo. Mi dissi: “Io sono un prete, che cosa ci faccio qui?”. E allora andai dal mio padre spirituale, don Primo. E lui mi disse di continuare, di andare avanti. E aggiunse: “Non ci sono per caso altre persone nella scuola?”. Voleva dire che potevo fare il prete anche lì».
È stato allievo di Longaretti.
«Sì, per me è stato importante. Alcuni anni fa sono andato a trovarlo, gli ho fatto vedere i miei acquerelli. Lui mi ha detto che ero un acquerellista nato. E mi ha inserito fra i maestri dell’acquerello. Invece con l’olio non sono mai andato d’accordo».
Come è nata questa mostra?
«È nata durante un viaggio in auto, un amico mi aveva invitato a fare qualcosa per i vent’anni della consacrazione del santuario mariano dedicato alla Vergine di Jasna Gora, in Polonia, il santuario che si trova qui, a Gorle. È nata perché io svolgo un servizio pastorale, in parrocchia. Ma al momento pensai che non avrei fatto nulla. Un ciclo di dipinti con protagonista Maria. No, da anni nemmeno più facevo il figurativo e non ho mai dipinto su commissione… No, non era il caso. Ma dopo qualche mese ho buttato giù un disegno, e non mi sono più fermato. Ho dipinto ventotto immagini, ventotto momenti. E lì mi sono bloccato, non sono più riuscito ad andare avanti».
Ventotto giorni è il ciclo lunare, simbolo della maternità.
«Non ci avevo pensato. Una coincidenza, però io non credo al caso, penso che tutto abbia un senso. Non è un caso che questa mostra sia nata e non è un caso che ne stiamo parlando qui adesso, io e lei».
Perché dipinge?
«Ho sempre avuto una mano felice, fin da bambino. Un dono. A un certo punto sentii l’esigenza di approfondire questa parte di me, questo senso artistico. Il vescovo decise di mandarmi in Accademia con una decisione sorprendente, che venne anche ostacolata da alcuni suoi collaboratori, ma monsignor Gaddi era un uomo illuminato. Poi mi sono accorto che la Parola di Dio può venire annunciata in diversi modi».
Lei è un predicatore, le sue Lectio divinae sono frequentate da centinaia di persone.
«Sì, e anche questo è stupefacente, anche questa è stata una scoperta. Io che in italiano e in filosofia arrancavo per arrivare alla sufficienza, io che sono un ragioniere. Ma ho scoperto questo dono, cerco di trasmettere la ricchezza della Parola di Dio a tutti, calandola e intrecciandola con la vita quotidiana, di tutti i giorni, di ciascuno di noi».
Ma la pittura?
«Vede, l’Oriente dice: “Vieni e vedi”. L’Occidente dice: “Ascolta e cammina”. Con la pittura faccio come dice l’Oriente. La pittura parla alla sensibilità, all’anima. Può ben parlare di Dio».
La pittura si è allontanata dalla religione.
«Io credo che sia un dialogo che può ben riprendere».
Le sue Madonne non hanno l’aureola.
«No, perché quella donna di nome Maria, madre di Gesù, non andava in giro con l’aureola in testa».
Quindi le sue Madonne sono laiche.
«In un certo senso sì, perché i dipinti raccontano Maria come donna, nel suo mistero. Il mistero abita in ogni donna, in ogni essere umano».
Lei fa il predicatore, il pittore, segue questo modo particolare di essere prete da tanti anni. Intanto la Chiesa è cambiata, tanta gente si è allontanata.
«Sì, sono cambiate tante cose. Noi preti siamo andati dietro al mondo, abbiamo cercato di essere forse troppo “del mondo”, di adeguarci alle sue parole e alla sua cultura. Io penso che oggi più che mai noi preti siamo chiamati a riprendere l’annuncio della sacra scrittura. Dobbiamo essere credenti e credibili, più che mai».
Lei ha parlato per nove ore in un cinema della Trinità, ispirandosi al dipinto di Andrei Rublev.
«Sì, nel cinema di Gorle e centoventi persone mi hanno ascoltato senza battere ciglio. Vede che la gente ha bisogno della Parola? Ha bisogno di sentire parlare di Dio. Io ho cominciato quando ero direttore dell’oratorio di Pignolo, nei primi anni Settanta, e non ho mai smesso. Il dipinto di Rublev è meraviglioso. Vede che l’arte può davvero ispirare il mistero. Parla nel profondo».
La gente non va più in chiesa.
«Va bene. Noi andremo dalla gente. Gesù non andava in chiesa, no? Si può parlare alle persone nei bar, a pranzo, in un parco. In ogni luogo si può portare l’annuncio. Vede, nel piano di colui che è mistero non esiste il caso. Andiamo avanti, c’è molto da fare».